Non sono in molti gli artisti contemporanei in grado di mescolare la vita e l’arte in modo così trasparente come Hong Sangsoo. Da sempre il regista sudcoreano riesce, attraverso una radicale semplicità, ad eliminare le distanze tra schermo e realtà, annullandosi e annullando tutto ciò che lo circonda, e lasciando spazio alla spontaneità dell’immedesimazione.

La storia di By the Stream è – come sempre con Sangsoo – molto semplice: Jeonim, un’insegnante di un’accademia d’arte femminile, chiede a suo zio, un attore-regista che non è stato in grado di lavorare per diversi anni, di dirigere uno sketch teatrale con quattro sue allieve, a sostituzione di un giovane regista allontanato dal campus per relazioni proibite con una sua allieva. In questo caso la drammaturgia porta avanti dei fortissimi elementi autobiografici, a sottolineare questo legame inscindibile tra ciò che si vive e ciò che si narra, e mette in scena, con gradi di separazione, il tema delle relazioni proibite di una società coreana timida ma contemporaneamente risoluta nell’affermare i suoi anacronismi. In questo senso la vicenda del giovane regista allontanato rispecchia, come nel riflesso di un torrente, il rapporto extraconiugale tra Hong Sangsoo e l’attrice Kim Min-hee, scandalo nazionale in patria qualche anno fa. Allo stesso tempo, il personaggio dello zio della protagonista è forse quello più corrispondente a un alter ego per come viene caratterizzato all’interno del processo drammaturgico, in un costante gioco di affermazione dell’estensione sociologica del vissuto al di là della quarta parete.

Questa assimilabilità si concretizza tuttavia come sempre all’interno di uno stile molto austero e curato, anche attraverso l’uso di luci esclusivamente naturali, per riportare lo spettatore a una dimensione quasi sacrale del cinema, a ricalcare l’idea di quel teatro povero portato alla luce da Jerzy Grotowski ormai mezzo secolo fa, che fa del drammaturgo un sacerdote che guida il pubblico negli anfratti più oscuri dei riflessi dell’animo. Qui di fatto il teatro si fa rimando del cinema stesso, proprio come l’arte si fa richiamo della vita, in un rimbalzo di significati e sottotesti che sospende By the Stream nell’iperuranio in cui Hong Sangsoo fa spesso viaggiare le sue opere, identificandole come entità vaganti al di fuori del tempo, che vogliono raccontare le sensibilità del quotidiano senza curarsi giustamente dei dettami delle correnti artistiche contemporanee, o delle ipocrisie dettate dal mercato.

Ecco che allora i film di questo sorprendente e sempre giovane regista diventano tutti uguali e allo stesso tempo tutti diversi l’uno dall’altro, come viene evidenziato del resto in una scena fugace ma abbastanza chiave in cui lo zio di Jeonim osserva tre quadretti sulla parete dello studio, inquadrati da lontano, apparentemente identici a parte che nella colorazione. Si tratta di tre opere separate o facenti parte di un trittico? La risposta c’è nel film ma non al di fuori di esso, continuando a interrogare lo spettatore sulla natura assolutamente libera del cinema, che sfugge sempre dalle caratterizzazioni canoniche del reale. Né sempre uguale né sempre diverso, e proprio per questo vivo e inaspettato, come il grande cinema di Hong Sangsoo, erede principale ancora oggi del maestro Ozu.