La nave è un luogo anfibio, contraddittorio, duplice, che produce uno sguardo, una messa a fuoco, un “guardare diversamente” che si traduce, a sua volta, in una percezione spostata della propria posizione, un inquadramento diverso del paesaggio marino in relazione alla terra, una misurazione delle distanze e del tempo che deve, per necessità, affinarsi, ri-definirsi, cambiare. Come un marinaio, un viaggiatore, un esploratore dell’ignoto, anche per il regista in mare si tratta di elaborare sempre uno sguardo e una temporalità che riescano a dimenticare (e oltraggiare) le leggi della terra — o di interpretarle daccapo in vista di un altro orizzonte, un’altra prospettiva sulle cose. La nave, nella sua ridefinizione costante di spazio e tempo, sembra prestarsi perfettamente a diventare un oggetto cinematografico, una metafora su e per il cinema, un modo di disancorare lo sguardo dall’immobilità dei fondali visivi del documentario tradizionale, come radicalmente han dato prova Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel nel 2011 con Leviathan. Immaginiamo la nave allora, come il centro del nostro occhio, pronto a (s)centrarsi, a invertire rotta, a modificare le proprie coordinate di viaggio consolidate.
In Terra Nova – Il paese delle ombre lunghe di Lorenzo Pallotta, presentato al 41º Torino Film Festival e adesso nel concorso internazionale della 17ª edizione di Archivio Aperto, l’inversione di rotta parte da un accecamento dovuto alla troppa luminosità del sole (ci troviamo nel paese delle ombre lunghe, del resto), da un conseguente re-imparare a guardare attraverso un filtro-protesi che richiama la forma di un oblò-mascherino applicato alla lente della camera: lo sguardo coincide col corpo-nave che è protesi ottica, strumento di ricerca e smarrimento. Bisogna imparare a guardare diversamente, appunto, a distinguere le lastre di ghiaccio pericolose da quelle attraversabili, a misurare le distanze per non incagliarsi e bloccarsi nel mezzo del Mare di Ross, nell’Antartico, a pochi chilometri dalla Baia di Terra Nova, come successe alla nave del 1988 la cui rotta e traccia segue la spedizione del 2023 della nave Laura Bassi e su cui Lorenzo Pallotta ha girato, come compendio alternativo a un documentario di divulgazione scientifica finanziato dal Pnra, questa esplorazione audiovisuale che tenta di ribaltare criticamente lo sguardo televisivo e contemplativo (e colonizzatore) dell’uomo sulla natura antartica attraverso un’esperienza filmica vicina alla simulazione videoludica.
Il film configura una posizione spettatoriale del tutto particolare, perché ci colloca in uno spazio di simulazione audiovisiva dentro il corpo — o l’immagine virtuale — della nave, simile a una navicella spaziale in volo — sul margine — tra spazio e tempo. Pallotta crepa la superficie dell’immagine, come un rompighiaccio dell’inquadratura, dei limiti del campo visivo, proponendosi, herzoghianamente, come forzatore delle possibilità del cinema in situazioni naturali estreme. Lo spettatore si posiziona dentro la simulazione del viaggio antartico navigando in un flusso continuo composto dai suoni in presa diretta e le musiche di freddie Murphy e Chiara Lee, dalle immagini d’archivio della spedizione del 1988 e quelle documentarie della spedizione presente. Tutto si impasta, si avvicina, si sovrappone, confondendo e mischiando intenzionalmente due temporalità e spazialità differenti. Pallotta genera un’immagine documentaria simulata, copia falsa dell’immagine d’archivio, grazie a un semplice espediente tecnico: filmare con una handycam degli anni ’90 e riproporre grafiche del tempo per titoli di testa e di coda. Il nostro sguardo entra nello spazio simulato creato da Pallotta che a sua volta si sovrappone all’occhio autoriale delle sequenze del 1988. Ma non si tratta solo di simulare, ovviamente: ma di ripercorrere, ri-tracciare una memoria e uno sguardo per ritrovare lo stupore e la meraviglia davanti a una geografia sconosciuta, luminosa, estrema. Simulazione e propriocezione, simulazione e sovrapposizione. Infine simulazione e smarrimento.
Terra Nova ri-usa l’immagine videoludica per riflettere sul contesto mediale contemporaneo, dove tra sguardo e natura intercede sempre uno schermo, un’interfaccia, una mediazione, un secondo occhio disseminato e spersonalizzato. In questo caso quello della GoPro in testa a uno dei ricercatori che filma il momento di abbattimento del record: l’immagine invertita al negativo destruttura il modo di filmare il reale in un dérèglement dell’inquadratura consumistica e divoratrice sulla natura. Siamo ancora senza coordinate, senza punti di riferimento, nello smarrimento del nostro sguardo iper-mediato sul ghiaccio e sul mare nel punto più a sud della terra. L’ultima traccia di freddie Murphy e Chiara Lee si intitola Closer e ci dà un indizio sul significato dell’operazione di Terra Nova: in un cinema (e mondo) iper-tecnologico siamo sempre più vicini e sempre più lontani (e fragili) di fronte al paesaggio naturale, dal toccarlo-filmarlo senza distruggerlo, pur nella felicità della scoperta. E la nostra fragilità sta tutta nell’immagine, nostra rivelatrice, nostro scudo d’Atena, come suggerì Radu Jude in Bad Luck Banging or Loony Porn. Dopo Sacro Moderno, che giocava coi confini tra documentario e finzione, umano e animale, Lorenzo Pallotta, nonostante la precarietà produttiva del progetto (girato durate le ore notturne dell’Antartico), continua a interrogarci con qualità sul rapporto tra cinema e natura, tra cinema e umano, questa volta confrontandosi anche con immagini ritrovate negli abissi dei mari ghiacciati di Ross.