L’ultimo film di Amos Gitai è un film in surplace: non cambia una virgola rispetto agli assi fondamentali del suo cinema, ma li ripropone sulla scia della contingenza presente, che sarebbe naturalmente il 7 ottobre 2023 e ciò che ne è conseguito. Agganciatosi all’attualità per sbarazzarsene con un lungo pianosequenza iniziale dentro a un memorial della strage a Tel Aviv, Gitai passa subito ai massimi sistemi, interrogandosi nientemeno che sull’ineliminabilità dell’aggressività umana, attraverso una riproposizione del carteggio in merito tra Sigmund Freud e Albert Einstein. Tutt’intorno ai due colossi che dibattono, Gitai imbastisce un arcano collage multidisciplinare che unisce, fra gli altri, musica, teatro, televisione…

Per l’ennesima volta, dunque, Gitai ripropone il proprio ideale estetico, che viene dritto dall’architettura razionalista e utopica in cui si cimentò anche il padre: un costruttivismo il cui presupposto è l’impossibilità che i singoli elementi formali si coagulino in una totalità stabile. Il collage non può compiersi perché ognuno dei singoli elementi formali è infinito: non è, cioè, chiuso in una forma definita ma è preso nel conatus dell’interminabile rincorsa della propria forma. Modernisticamente, all’estetica corrisponde la politica: una concezione della totalità estetica come quella appena accennata è anche la prefigurazione di una società in cui ciò che è distinto può e deve coesistere senza potersi coagulare in unità. Le singole identità (e sapersi tali è il fondamento della possibilità di una loro coesistenza) sono prese, senza poter tagliare netto tra una e l’altra, tra la fatalità della loro distinzione e la loro intercambiabilità di fatto, dal momento che tutte sono costitutivamente instabili e prese nel conatus della loro perennemente rinviata omeostasi, che lo stesso Freud ha chiamato “pulsione di morte”: il lasciarsi ossessionare dal vuoto attorno a cui la civiltà si costituisce. Questa intercambiabilità strutturale delle identità sulla base di ciò che le unisce (la “pulsione di morte” elevata ad assoluto, a condizione affinché civiltà si dia) viene illustrata egregiamente da una caotica scena di battaglia biblica in notturna, la cui intellegibilità viene di fatto cancellata dalla sovrimpressione di più vedute sull’azione da punti di vista diversi (non è questa un’altra forma coerente per l’impossibile mosaico gitaiano?), nella quale il testo sacro è recitato in inglese, gli antichi romani parlano ebraico e gli ebrei dell’epoca dei romani parlano arabo.

Parte della forza dell’approccio del regista israeliano è data dal combinare insieme da un lato questa intercambiabilità e flessibilità delle identità su cui potrebbe fondarsi un ideale comunitario la cui praticabilità e la cui incompiutezza strutturale vanno a braccetto, e dall’altro l’insistenza sulle radici specificamente ebraiche di questo approccio ravvisabili nella negazione della prospettiva escatologica, ovvero nella negazione che i pezzi del mosaico possano davvero coagularsi in un’unità.

A ciò sembra fornire una risposta squisitamente cristiana il nuovo film di Harmony Korine, costruito su una forma mediale che la congerie multidisciplinare tardo-modernista di Gitai lascia fuori, forse perché troppo contemporanea: il videogioco. Per poco più di un’ora, Baby Invasion ci fa occupare la visuale di un giocatore di uno sparatutto iperfotorealista che, sfuggito dalle mani dei programmatori e finito in quelle peggiori possibili, si fonde pericolosamente con la realtà e fa scorrazzare una gang con tanto di corna e volti di neonati aggiunti con filtri digitali nelle faraoniche magioni di veri ricchi, allegramente macellati in massa. Come in Gitai (e in Freud e in Einstein), l’apocalisse è il destino di ogni civiltà e il tempo si annulla nell’eterno presente dell’infinito girare intorno alla propria forma (decisivamente, alla gang di Korine è vietato guardarsi allo specchio): qui però la teleologia escatologica, con un Dio che arriva e fa fuori i killer che hanno osato sostituirsi a lui, c’è eccome, è ben presto annunciata e ripetuta lungo tutto il film da una voce over che favoleggia di un coniglio (verosimilmente quello di Alice) braccato da un altro animale-nemesi che ne segnerà la fine.

Sottilissimo è il confine tra l’estasi mistica e il carattere fondamentale del contemporaneo così come i media lo specchiano, ovvero la ridondanza, qui portata all’estremo (oltre che alla classica coazione a ripetere dell’atto omicida) con una valanga di segni che saturano l’immagine senza scalfirla (le chat degli utenti che assistono al gioco, gli schemi geometrici che innervano le immagini digitali etc.). È un confine che Korine, non da oggi, fa di tutto per polverizzare, prendendo il vuoto kitsch della sensorialità tecno-mediata contemporanea, rigonfia fino a essere paonazza, per vedere in essa l’annuncio, terribile quanto liberatorio, di una fine del tempo immediatamente, estaticamente accessibile ai nostri sensi. Se il tempo del videogioco è un galleggiare nei tempi morti tra le pieghe di un’azione costitutivamente marginale e saltuaria e sostituita perlopiù dall’esplorazione dello spazio, Korine fa di questo galleggiare nei tempi morti la rivelazione della morte del tempo, con il presente libero di lasciarsi sfondare dall’infinito.