The Brutalist è il primo film di Brady Corbet “senza” Scott Walker, al quale il film è prevedibilmente dedicato. Molto più che il mero autore delle musiche dei suoi primi due lungometraggi, il musicista anglo-americano è, in particolare per quanto riguarda la sua fase più avanguardistica e sperimentale, l’autentico motore occulto del cinema di Corbet.

Come Walker, ma anche come un Paul Thomas Anderson (Petroliere in primis) “che ce l’ha fatta” (a non venire schiacciato dal piattume midcult), The Brutalist si impernia infatti sul tentativo di salvataggio, senza chiuderlo nelle nicchie elitarie ma conservando anzi un carattere di massa, del tardo-modernismo postbellico dallo svaccare nel postmoderno, così come il tardo-modernismo postbellico si proponeva di salvare il modernismo di inizio Novecento dopo il ground zero della Seconda Guerra Mondiale.

Lo fa inventandosi László Tóth, architetto ex-Bauhaus sopravvissuto all’Olocausto che dall’Ungheria emigra in Pennsylvania e viene ingaggiato da un miliardario per costruire un complesso multifunzionale ad uso della piccola comunità locale. Architetto la cui omonimia col geologo che nel 1972 vandalizzò la Pietà di Michelangelo a colpi di martello è solo uno dei tantissimi riferimenti storico-artistici che fanno di The Brutalist un’opera tra le più stratificate del cinema recente.

Conservare il tardo-modernismo postbellico vuol dire salvare le sue velleità utopiche: come la forma segue la funzione, l’architettura deve perseguire il bello insieme a un ideale comunitario razionalista spiccatamente emancipatorio. Chi dice “utopia” dice “religione” (sottotesto cruciale del film), ma a metà del secolo scorso evidentemente anche “geopolitica”: l’arrivo in Pennsylvania di moglie e nipote dopo qualche anno di purgatorio di là dalla cortina di ferro innescheranno una reazione a catena che porterà l’utopia razionalista di László a distruggersi e a venire sostituita, in una zampata finale che certamente farà discutere, dalla sua caricatura chiamata, udite udite, sionismo.

La questione razziale è infatti, con la religione, l’altro sottotesto chiave del film, e proprio la nipote che emigra in Israele sarà responsabile della malevola imbalsamazione dell’opera di László e della sua consegna ai posteri in modi che ne travisano grottescamente intenti e processi originari, liquidando definitivamente l’utopia tardo-modernista nella vulgata compiaciuta del postmoderno. Sua figlia sarà interpretata, una ventina di anni dopo, dalla stessa attrice che interpreta la madre: a chi conosce il cinema di Corbet non sfuggirà che questo è il segno di un demoniaco revanscismo eugenetico-suprematista, che ha inaugurato il ventunesimo secolo (Vox Lux) dopo aver segnato a fondo il ventesimo (Childhood of a Leader), e tutt’altro che estraneo al tycoon protestante che fa da mecenate a Tóth.

Se il cinema di Corbet è l’ultimo Scott Walker con altri mezzi, e se The Brutalist è un Petroliere che “ce l’ha fatta”, è perché Corbet ha infinitamente più orecchio di Paul Thomas Anderson. Se la monumentalità di quest’ultimo non ha mai rinunciato alle seduzioni della drammaturgia, Corbet si interessa meno del partito preso della stilizzazione che del titanismo della mimesis romanzesca, fatta di scene tendenzialmente autonome che sono blocchi granitici modellati da poche, incisive modulazioni. Mette insieme tasselli drammatici che uniscono potenza figurativa a sobrietà, inanellandoli senza mai farli diventare un arco, rimanendo fedele a principi compositivi sostanzialmente serialisti, in senso musicale-architettonico. Il legame costruito dal montaggio tra il vagone ferroviario che esplode insieme ai materiali edili che veicolava e i dolori notturni della malconcia compagna di Tóth è esclusivamente astratto e concettuale, non drammaturgico, non melodico. Sarebbe stato facile assecondare lo slancio utopico dell’impresa architettonica perseguita dal protagonista e dai suoi finanziatori con l’entusiasmo di toni ascendenti alla Frank Capra (o alla King Vidor, il cui Fountainhead è stato da molti evocato un po’ a sproposito): la linea tonale costruita da Corbet è invece orizzontale, umile come il suo protagonista, per il quale tutto va sacrificato alla coerenza estetico-razionalista del suo progetto. L’implacabilità della geometria è già in natura (la decisiva deviazione a Carrara con i suoi marmi), non bisogna dunque temere di rimanere fedeli alle leggi, implacabili, della composizione, né bisogna temere le dissonanze che eventualmente si produrranno in tal modo tra elementi lasciati ognuno respirare secondo le proprie necessità, e secondo le proprie necessità reciprocamente legarsi. Solo così, solo lasciando che si dipanino su questa scia le relazioni tra i personaggi senza curarsi di una durata che finisce fisiologicamente per oltrepassare le tre ore, viene districata la matassa geopolitico-religiosa a sfondo razziale su cui si impernia The Brutalist.

E l’occhio? L’occhio deve all’orecchio la consapevolezza che le griglie serialiste iperrazionali, in musica come in architettura, non servono a mortificare l’esistente, ma a rivelare la luce che passa attraverso le loro labirintiche, spietatamente geometriche strutture. L’utilizzo del VistaVision 70mm non è un vezzo di chi vuole vendersi come artista e con ciò occupare la corrispondente nicchia della Hollywood di oggi: è indispensabile al film nella misura in cui il punto vero di quest’ultimo è come la luce si posa sulle superfici, prima dell’illusorio trionfo assoluto delle superfici che fu il postmoderno. Tutti i milioni spesi per questo poco vendibile UFO, e anche di più, sarebbero giustificati anche solo dalla scena dell’arrivo alla stazione di moglie e nipote del protagonista, con quei gagliardissimi colori che ci ricordano come il cinema sia materia sensibile, che si lascia scolpire solo ascoltandola.

Sono soprattutto gli umili a saperlo, come il protagonista. La loro vulnerabilità è il riflesso della plasticità della materia cui danno forma: è il loro privilegio e il loro limite.