Nessuno più di Kitano, in tempi recenti, ha incarnato il paradosso dell’attore di Diderot: l’attore è tanto più attore quanto più non è, e viceversa. La sua maschera è, forse più di qualunque altra in tempi recenti, il negativo di una maschera, l’espressione dell’inespressività, e in quanto tale manifesta più di ogni altra la coincidenza tra soggettività e negatività, il soggetto come negazione dell’essere e non la sua espressione.
Nelle ultime opere, Kitano ha portato agli estremi il legame (alquanto ravvisabile anche nelle opere precedenti) tra tutto ciò e un contesto ben preciso: una concezione assai nipponica dell’istituzione sociale come qualcosa che, a mo’ di macchina, si nutre delle proprie disfunzioni. Ciò che inceppa la macchina sociale è quanto di più funzionale al consolidarla, perché ne stimola la flessibilità e il trasformismo che cova sotto l’apparente rigidità. Era già così in epoca feudale (Kubi, del medesimo Kitano, 2023), le cui strutture si sono poi ampiamente riciclate in quelle delle corporation industriali e postindustriali, esse stesse dotate non per caso di un rovescio trasgressivo che finisce per esserne il doppio speculare: l’universo yakuza (al centro della trilogia kitaniana degli Outrage usciti nel 2010, 2012 e 2017).
Ma se quindi queste macchine sociali sono fatte apposta per capitalizzare chi le trasgredisce, che posto c’è per l’autonomia del soggetto? Che posto c’è per quel negativo che la soggettività è, se qualsiasi negazione viene riassorbita nel funzionamento positivo della macchina sociale?
Broken Rage è, per davvero, il film di Kitano definitivo, perché è l’unico a dare una forma compiuta a tutto ciò conservandone la natura di problema, a conservare cioè come interrogativi gli interrogativi abbozzati poc’anzi, disponendo uno di fianco all’altro gli elementi del problema senza dare soluzioni. Parte prima: la macchina. Un film yakuza crepuscolare, con un killer al tramonto ingaggiato da poliziotti affinché vada undercover. Parte seconda: la negazione della macchina. La medesima storia yakuza si riempie di digressioni comiche che la rendono diversissima dalla prima, eppure identica. La conferma che rompere la macchina aiuta la macchina. La domanda “che ne resta del soggetto?” viene poi posta nella terza, brevissima parte, dove Takeshi, dopo avere come al solito indossato la negazione come una maschera, si autonega morendo a un secondo dall’inizio di una storia che si preannunciava identica a quella percorsa nelle altre due parti. Al soggetto come negazione rimane un posto esclusivamente esterno alla macchina, poiché quest’ultima lo riconverte ineffabilmente in elemento propulsivo.
Dopodiché, certo, Broken Rage è innanzitutto 1) irresistibilmente esilarante e 2) una giornata campale narratologica. Lo spettatore che (soprattutto) una certa televisione seriale ha allenato ad essere narratologicamente sofisticato si divertirà un mondo a cavillare sulla costruzione soprattutto del primo episodio “serio”, sull’arguto sistema di esche che porta innanzi l’interesse drammatico dello spettatore, sulle sue micro-ripetizioni che “annunciano” il replay integrale della seconda parte, sui sorrisi appena accennati che preparano le risa sguaiate della seconda parte, sulle ellissi che sapremo essere tali solo nella seconda parte, e molto altro. Nonché, certo, l’imprevedibilità assoluta delle gag della seconda parte: impossibile intuire in anticipo quale dettaglio della prima parte verrà rovesciato in occasione comica.
Ma al di là di tutto questo, conta ancora di più la lucidità con cui Kitano individua e ribadisce, chiarendola oltre ogni dubbio, la stella polare di tutto il suo ultimo cinema: oggi che il mondo tende a coincidere con il formato postindustriale della corporation neofeudale, è urgente che il soggetto trovi un posto né fuori né dentro di essa. Il cinema, sembra dirci l’ultimo Kitano, serve oggi soprattutto a prendere coscienza di come il soggetto abbia davanti questa nuova frontiera, e che debba più di qualunque altra cosa trovare una quadra a questa contraddizione che è per il soggetto, oggi, l’unica occasione di esistere.