Louise (Kristen Stewart) e Jackie (Katy O’ Brian) si incontrano in una palestra, nido sicuro della cultura queer – come ci ricordano tra gli altri il culturismo di Mishima e il caso del YMCA – e in mezzo ai macchinari e ai cessi da pulire si iniettano una prima dose di dopanti, eroina per la giovane coppia, legante fino all’ultimo del loro rapporto. Così inizia Love Lies Bleeding, l’ultimo lungometraggio di Rose Glass, a metà tra un neo noir e un thriller dalle tinte anni Ottanta, sanguinoso e sessuale.
A legare le due ragazze è in un primo tempo l’ossessione per il fisico, e in un secondo una serie di omicidi che si susseguono con rapidità e violenza. La prima vittima è JJ (Dave Franco), yankee americano ignorante e violento nei confronti della compagna, nonché sorella di Louise, Beth (Jena Malone). La morte di JJ segna la fine dell’idillio vissuto fino a quel momento dalla coppia, c’è un fantasma nell’aria ora, la morte da nascondere, e l’effetto dei dopanti sulla psiche di Jackie che inizia man mano a diventare più evidente; inizia qui una danza adrenalinica, una fuga: per Louise dal suo passato oscuro, incarnato nel padre Lou Sr (Ed Harris), per Jackie dai suoi impulsi violenti.
Il film è prima di tutto una storia di corpi: è la storia del corpo muscoloso di Jackie che incontra, quello flessuoso e androgino di Lou nelle scene di sesso, rese con una freschezza e una femminilità rinvigorenti. Certo il corpo è il punto focale dell’immagine, ma non codificato al maschile: non c’è spettacolarizzazione dei corpi quanto più una volontà di soffermarsi sui dettagli, sui piccoli gesti, sui muscoli di Jackie e il suo volto che scende per il corpo di Lou, fino allo stomaco e appena sotto.
Una delle operazioni più interessanti messe in atto dal film è quella della rimozione della violenza omofoba, sostituita invece dalla violenza del cinema di genere. Non si affronta l’omosessualità come tabù in maniera dichiarata, essa non è mai dipinta come un elemento estraneo, a malapena viene menzionata. Non ci sono attacchi omofobi ai danni delle due ragazze ma il centro viene spostato, si parla comunque di stranezza e diversità ma attraverso i moduli narrativi del neo noir e del thriller. Difatti si parla di mostruosità, le immagini del corpo di Jackie in particolare calcano sull’apparenza quasi grottesca del suo corpo, che quasi non è più intuibile come maschile né come femminile, ripudiata da tutti, in cerca di rifugio e identità solo nel bodybuilding e nella cieca violenza di cui si fa portatrice.
C’è da interrogarsi, quando si parla di ribaltamento del genere, su quanto sia sovversivo limitarsi a sostituire un corpo femminile a uno maschile: forse sarebbe più proficuo pensare a una ricodifica della struttura narrativa presa in esame. In questo gli intenti del film sembrano andare proprio in questa direzione, si ripudia il finale oscuro tipico del genere, e a cui così spesso vanno incontro le coppie omosessuali nel cinema americano (nella cosiddetta “bury your gays” trope), creando invece un’ucronia soprannaturale: quando tutto sembra star virando nel più tetro dei finali – nello scontro tra Louise e il Padre – Jackie riesce a salvare l’amata trasformandosi in una gigantessa e uccidendo Lou Sr. Se le narrazioni queer nel cinema americano ci hanno abituato alla morte come consacrazione all’amore, Louise e Jackie uccidono questo mito e, quasi come delle Thelma e Louise graziate dalla fortuna, non si trovano costrette a questo compromesso. Invece che sfrecciare verso un precipizio la loro auto corre verso un futuro migliore.
Di nuovo voglio insistere sulla natura politica del linguaggio, anche quello cinematografico, e sulla necessità di creare nuove strutture di grammatica visiva che si distacchino dalla modalità di consumo maschile.