Il titolo è rohmeriano, e probabilmente l’ambientazione estiva, balneare, con giovanissime protagoniste ad abitarne spazi e colori, suggella il legame tra l’opera seconda di Carlo Sironi e tante suggestioni, placide e seducenti, del maestro francese. Di fronte al racconto di due diciassettenni che, accomunate dallo spettro di una malattia oncologica, in pieni anni Novanta si rifugiano su un’isola per riconnettersi alla loro libertà, non si può però non pensare che la radice sotterranea di Quell’estate con Irène, presentato in Berlinale Generation, sia il cinema di Antonioni.
C’è infatti nel film un ininterrotto discorso sulla fragilità umana che dai corpi delle protagoniste Clara e Irène passa alle loro relazioni, fino a contaminare la stessa percezione della realtà, trasformando questa storia tipicamente, diremmo onestamente teen, peraltro attraversata da ulteriori, originalissime venature (si pensi all’uso delle musiche folk americane, o al sottofondo letterario della Trilogia della città di K. di Agota Kristof), in una sorta di incombente, ineludibile ricognizione metafisica, che mette a tema la transitorietà della nostra presenza tra le cose del mondo.
Qui si misura anche lo scarto rispetto al precedente Sole, che non solo si collocava su temperature opposte per ambientazione e racconto – il litorale laziale fuori stagione, due giovani alle prese con l’ipotesi della genitorialità, con la responsabilità dell’altro da sé –, ma soprattutto si dispiegava entro la cornice di una sofisticata formalizzazione visiva. Pur in un’ideale continuità di tono e rigore, questa volta la macchina da presa mostra uno slancio più libero, l’inquadratura più aperta alle sfumature frastagliate della luce e dell’ambiente di Favignana, più disponibile a connettersi ai turbamenti, tutt’altro che pretestuosi e sempre recitativamente calibrati, di Clara e Irène, figure “vampire”, come amano definirsi nei loro incontri sull’isola, diversissime fra loro – una è timida e silenziosa, l’altra estroversa e carica di iniziativa – ma ugualmente assetate di esperienze, commoventi nel loro istinto di aggrapparsi all’atto di esistere. Un istinto che, in maniera sottile, passa sempre anche dal medium dello sguardo, dal bisogno di creare e definire le immagini, di desiderare cose impossibili attraverso l’arte di una figurazione interiore.
Clara e Irène guardano, e dalla prospettiva della loro solitudine esposta sono capaci di sentire due volte il paesaggio che le circonda, di abbracciarne in qualche modo il sostrato antico, geologico, che le sovrasta ma da cui non sono disposte a sottrarsi. Per loro non è semplice trovare le visioni che le abitano, e forse il potere di ricreare il mondo attraverso le inquadrature di una videocamera – strumento portato in scena senza troppe nostalgie, al contrario con un senso di vivo presente – diventa una maniera concreta, persino ludica e liberatoria, per riappropriarsi di sé, e reciprocamente riconoscersi. Perché di fronte al mare e con quelli occhiali da sole a celarne i pensieri, Clara e Irène potrebbero anche essere, bergmanianamente, due profili di una stessa identità, una persona che si guarda allo specchio e, chiudendo gli occhi, prega il proprio riflesso di non essere scomparso una volta che li riaprirà.