Spirit of Ecstasy di Helena Klotz, vincitore del Premio della critica SNCCI alla quarantaduesima edizione del Bellaria Film Festival, è all’apparenza solo un racconto sul tentativo di successo di una giovane nel mondo della finanza, ma a veder meglio ci mostra cosa significhi essere giovani donne in qualsiasi ambito lavorativo. Il tutto veicolato da un’identità fluida, non solo nel genere della protagonista, ma anche nella sua insistenza nel giocare con archetipi che le permettano di funzionare nel contesto. Come Giovanna d’Arco Jeanne “sacrifica” la sua femminilità e la sua identità in nome di qualcosa di più alto. Non il potere, ma la libertà
Come è iniziato il tuo percorso da cineasta?
Penso di essere diventata regista perché sono stata prima una spettatrice, ho visto molti film e il cinema è diventato per me il luogo dove vivere l’emozionalità, guardavo film e piangevo e ridevo. Faccio film pensando di essere io stessa spettatrice, non regista. Inoltre sono cresciuta con due genitori che facevano cinema e quando ero molto piccola andavo con loro sui set, e potevo osservare il processo dopo le riprese, in fase di montaggio, mi sembrava una cosa magica, il cinema è una cosa magica.
Mi sono presa del tempo dopo The Atomic Age, in cui ho lavorato in altri ruoli e per altri registi: ho scritto sceneggiature, ho fatto l’art director e ho fatto casting. Io non ho studiato in un’accademia di cinema quindi ho sempre voluto sperimentare, imparare facendo. Però sto lavorando più rapidamente al mio prossimo film.
Parlando del film, qual è il legame tra identità e vestiti?
Ho sempre scritto di persone non-comuni, molto particolari e specifiche, e quindi avevo necessità di comunicarlo anche attraverso i vestiti. L’abbigliamento di Jeanne è come una tenuta da supereroe, ho immaginato questa ragazza su una moto con un completo da uomo e per me era davvero come se i vestiti di Jeanne fossero la sua armatura, questo mi permetteva anche di sottolineare l’epicità del suo personaggio. Uso il lei, quando parlo di Jeanne perché in realtà non l’ho scritta come una persona non-binary ma come qualcosa di ancora oltre, qualcuno che non si muove seguendo le coordinate della società, ma in maniera davvero libera.
Lei dice di sentirsi “come un numero” eppure non lo sappiamo mai, magari l’ha posta in quel modo per fare colpo su Fares. Quello che mi piace di Jeanne è che è un mistero. Volevo scrivere un personaggio femminile misterioso, impenetrabile.
Pensi stia vendendo versioni diverse di se stessa?
Sì, per esempio a casa assume un ruolo molto più femminile, è molto materna coi suoi fratelli. Ma perché a casa lei è la “piccola mamma”, Jeanne non ha avuto la possibilità di vivere l’infanzia, perché era la più grande della casa.
Sempre riguardo a Jeanne, è voluta la somiglianza con Giovanna d’Arco?
Sì, da ragazza sono stata molto colpita dalla Giovanna d’Arco di Bresson, è un personaggio che mi è rimasto molto. Sono molto affascinata dall’idea della donna guerriera che è al contempo una mistica. Volevo inserire un elemento di misticismo in uno spazio contemporaneo. Jeanne potrebbe esistere sia nel nostro tempo, che in quello passato o futuro, o coesistere in tutti.
Il titolo invece come lo hai scelto?
Spirit of ecstasy è il nome vero della statuetta sul cofano delle Rolls Royce. In francese si chiama Le Venus D’Argent, è l’argent è il denaro, ma richiama anche l’idea di nuovo di qualcosa di metallico, di freddo, un’armatura. Jeanne è una donna d’argento, metallica.
Che ruolo gioca il concetto di ambizione nel film?
Per me era molto importante, sono interessata all’ambizione femminile, perché spesso le donne sentono di non aver diritto ad ambire a qualcosa, a sognare in grande. Quindi ho voluto lavorare su un personaggio che non brama soldi o potere ma libertà. I soldi non sono il centro del film, il nucleo è la libertà di Jeanne, e il fatto che lei sia disposta a sacrificare tutto per quella libertà. Molti hanno pensato che questo fosse un film su una donna che vuole lavorare nel mondo della finanza, ma non è così. Perché non mi interessava fare un film naturalistico, anzi, volevo creare una mitologia del contemporaneo. Ho scritto questo film perché realizzando i miei primi film mi sono sentita come Jeanne. Sul set del mio primo film non mettevo vestiti da donna perché sapevo che non sarei stata presa sul serio, non mi avrebbero trattata come una regista. Il mondo della finanza quindi rappresenta una qualsiasi industria, mi sono orientata verso quello in particolare perché nonostante il commercio e i soldi siano la base della nostra società non se ne parla mai al cinema, volevo colmare quel solco.
Come hai lavorato invece sulla scrittura degli uomini nel film?
Ho scelto di mostrarli al di là di una visione vittima-carnefice, perché in realtà siamo tutti composti da più cose, gli uomini possono avere una dimensione femminile, è il caso di Fares. Inoltre mi piace mostrare che le persone possono cambiare, è il caso di Augustine. Voglio muovermi oltre i binarismi, perché la vita non è bianca o nera, ha molti più colori.
Quanto peso ha la colonna sonora del film?
Nel film la musica è essa stessa un personaggio, la musica è la porta attraverso cui viviamo l’interiorità emotiva di Jeanne, come un voiceover melodico, quello che non vediamo è espresso nelle note.
Come hai lavorato con Pommet, una cantante al suo primo ruolo?
Curiosamente Pommet ha sempre voluto recitare ed è sempre stata respinta! Ma io volevo lavorare con lei, era perfetta per Jeanne. È stato bello anche poter collaborare con un’altra artista donna. Abbiamo lavorato per un anno sul ruolo, ho preferito concentrarmi sulla recitazione corporale piuttosto che sulla sceneggiatura, abbiamo passato molto tempo a creare una specie di vocabolario dei movimenti di Jeanne: come avrebbe mangiato, come si sarebbe seduta ecc. Questo anche perché Pommet è molto diversa da lei come movenze, è più rilassata e sicura di sé, Jeanne invece doveva essere rigida e fredda, anche il suo modo di muoversi è pensato per proteggerla dal mondo esterno.
In questo senso ho lavorato su una freddezza generale, anche nelle riprese degli ambienti, perché i luoghi dove ci sono soldi sono asettici, lo stesso vale per il mondo militare, sono luoghi di repressione.
Come hai deciso il finale?
È stato molto difficile trovare un finale adeguato. Non volevo che Jeanne venisse assunta, non penso che rimarrà nella finanza, non so dove andrà ma non penso rimarrà lì. Non era importante il lavoro, quello che era importante era mostrare come lei avesse una scelta, perché crescendo non l’ha avuta, ed è importante creare narrazioni che mostrino come le donne abbiano una scelta.
C’è qualche regista che ispira il tuo sguardo?
Cambiano da film a film. Per questo sono stata più ispirata dalle serie piuttosto che da film. Mi sono ispirata a Nicolas Winding Refn per la messa in scena, ma anche a Steve McQueen e Andrea Arnold.
Ultima domanda, quanto valore pensi abbia il tuo essere donna nel cinema che fai?
Penso molto, mi rendo conto – anche facendo parte di una Film Commission in Francia e leggendo sceneggiature sia di uomini che di donne – che abbiamo sguardi diversi, e che il cinema delle donne ha la possibilità di raccontare nuove storie e nuovi personaggi. Quando proposi questo film mi dissero più volte che nessuno avrebbe trovato un personaggio come Jeanne interessante, e invece siamo qui! Il cinema è pieno di personaggi maschili freddi, perché una donna non può esserlo?