Per una volta vale la pena cominciare dalla fine. Da come un film prende congedo, per lasciare quella persistente sensazione di empatia, così rara in tante delle opere viste a Cannes. Gli ultimi venti minuti di Anora sono una lezione su come si possa fare cinema che utilizzi residui di classicità per dare valore a un racconto adeso alla contemporaneità. In quei lunghi silenzi, in quei tempi gestiti magistralmente tra la protagonista e un personaggio che sembrava un comprimario, una caricatura a margine dello script, c’è invece tutto il senso di Anora. Il bisogno di Anora/Ani di sentirsi compresa e non solo desiderata, di poter liberare con una catarsi il vero io, di far cadere la maschera dell’americanizzazione di un nome uzbeko in Ani, quasi a volersi mimetizzare in un avatar anglofilo e socialmente accettabile (pur nella non-accettabilità della professione di stripper e sex worker). Nello sguardo di Igor leggiamo la frustrazione del proletario russo perennemente visto come pericoloso e “stupratore”, impossibilitato alla tenerezza dal pregiudizio altrui. Nello sguardo di Ani, invece, osserviamo il sogno di Cenerentola che si frantuma, la fandonia della principessa che se ne va al macero insieme all’individualismo del sogno americano, per lasciare spazio al vero di una difficile realtà con cui fare i conti. Difficile immaginare un simile punto di arrivo partendo dall’esibizione dei corpi sodi dell’incipit, dal piacere un po’ complice del voyeurismo. Ma sta qui la grande abilità di Sean Baker, che gioca sempre su quel crinale tra disgrazia sottoproletaria degna di Ken Loach e polvere di stelle, sia quando riesce (The Florida Project) che quando fallisce (Red Rocket).
In Anora complica ancor di più la faccenda, impostando apparentemente una pochade con tendenza allo slapstick nella parte centrale, che inietta un po’ di Blake Edwards nel corpo glamour di un’opera apparentemente acchiappa-like. Era quindi tutto un bluff, un videogioco come quelli che tanto piacciono al giovane miliardario russo viziato Vanya e che – come livello segreto, come easter egg – nasconde l’amarezza della vita vera. L’epilogo di Anora ripropone, come e più che nei film precedenti di Baker, la divisione netta e incolmabile tra chi possiede e chi è posseduto, tra chi ha comprato la propria licenza di vivere la vita senza un game over e chi si illude di poter scalare posizioni in una società capitalista che si presenta orizzontale, ma cela una verticalità da caste induiste. Ani è osservata dall’inizio alla fine, scrutata dalla macchina da presa, dagli avventori allupati che la sfiorano e infine da Igor. Ma sono gli occhi di Ani quelli su cui soffermarsi, per leggervi il cambiamento di reazione rispetto allo sguardo desiderante e di come la necessità istintiva di sentirsi guardata trascolori in quella di sentirsi capita e rivelata, smascherata attraverso un doloroso processo di riappropriazione identitaria.
Il gioco di ribaltamento delle aspettative è la chiave del successo di Sean Baker: crediamo che il miliardario russo usi e getti Ani quando invece la sposa; che i gangster armeni al soldo del papà siano killer brutali, quando invece sono buffi e svogliati; che Igor sia la sintesi personificata della gelida violenza russa – come già in Scompartimento n.6, con un Yuriy Borisov talmente perfetto nel ruolo di gopnik dalla scorza dura ma dal cuore tenero, che è già quasi a rischio di typecasting – quando invece è solo un taciturno proletario, per nulla impressionato dalla tracotanza dei suoi datori di lavoro. E così via, con la fiaba di Cenerentola che diventa uno spaccato sociale, il fuxia e i colori al neon della metropoli che scoloriscono nel grigio plumbeo di un rigido inverno, in un’auto scassata. La realtà scaccia il sogno e si prende possesso dello schermo, per non lasciarlo più.