Venezia, 13 maggio 2024

Caro Giuseppe, cara Isabella,

non ci conosciamo di persona, almeno nel senso convenzionale dell’espressione, e proprio per questo vi do del tu. Lo faccio perché a darmi del tu, per primo, è stato il vostro film.

Non conoscevo Giro di lune tra terra e mare prima di arrivare a Bellaria qualche giorno fa, né avevo mai sentito la vostra voce fino alla sera della proiezione al Cinema Roma. Al termine, quando si sono riaccese le luci in sala, ho detto due parole, vi ho fatto una domanda, ma non era quella che avrei voluto. In effetti non so tuttora cosa avrei voluto esattamente chiedervi. Chi, come il sottoscritto, si illude di poter ‘rivedere’ pezzi di film con le parole, è costretto ad ammettere per primo che spesso le parole gli mancano, anzi lo mancano. Anche le immagini gli mancano, alle volte, ma non nel senso che lo sfiorano, gli fanno sentire alle spalle l’ipotesi della loro permanenza e poi lo superano, lasciandolo lì a chiedersi dove andranno a finire. Mancano, le immagini, a chi ci si affida, pur sfidandole, come manca l’aria a un asmatico.

Mi mancavano, le immagini di Giro di lune, solo che ancora non lo sapevo.

A partire dalle facce della famiglia Gioia, eredi naturali dei modelli di Caravaggio per le Sette opere di misericordia: meravigliosamente strizzate e porose come spugne, volti antichi quanto la terra da cui stanno per essere sradicati e quanto il mare dal quale presto saranno sempre più lontani, antichi eppure transitori. Mi mancavano quei corpi di stracci catturati dal tremito imperterrito di Pozzuoli e intrappolati in un eterno trasloco, gente della stessa genia di diseredati che ogni giorno (giorni che durano secoli) dal Nagorno Karabakh alla Patagonia rivive l’offesa della spossessione e ogni giorno impara nuove fantasie di riscatto. Non lontano dai Campi Flegrei, dal dialetto puteolano arso come il grano, erano cresciuti i bambini di Anna Maria Ortese, i protagonisti del Porto di Toledo e del Cardillo addolorato. Ci avrete pensato già anche voi. Non muore forse di paura, durante l’ennesimo terremoto, l’‘aucelluzzo’ pietosamente coperto nella sua gabbietta dal fazzoletto di Donna Mena?

Commovente è persino la condizione della copia che si è vista a Bellaria. Anzi, verosimilmente copia di una copia: del 35mm originale è sopravvissuta una parata di fantasmi cavernosi che marciano sopra calcinacci e sotto archi dai colori pompeiani stinti. Ma quella sera una nitidezza di tipo diverso si faceva strada sin dall’inizio, dagli innesti quasi astratti dei paesaggi osservati dal finestrino, in corsa. Dentro gli occhi di Gennarino, proiettati sulla fronte sua attraverso il vetro, i frammenti delle vite individuali, disperse, me li ricordo come fossero stati in alta altissima definizione. Ancora li vedo e mi raggiungono dai bassi e dalle grotte. Più in profondità avete scavato, con la vostra camera da poeti-speleologi, più in alto si stagliano le inquadrature delle case arroccate in abbandono, i primi piani dei sorrisi e delle smorfie, il piano sequenza stupendo del litigio intorno alla tavola. (Comunque: quanta gente, appena terminata la proiezione e ancora il giorno dopo, in giro per la città, sulla spiaggia, a dire: “Va restaurato, e il prima possibile! Facciamo qualcosa, mettiamoci noi, insieme, adesso! Scrivi tu insomma, chiedi a chi puoi!”).

Mi ha avvinto, cara Isabella, caro Giuseppe, lo spostamento in cui vi siete cimentati, anzi lo straniamento della direzione del tempo. Non più dal passato al presente, convenzionalmente da sinistra a destra, come nei libri di scuola. Nella vostra Pozzuoli – e ovunque sopravviva qualche traccia d’arcaico, fosse anche in disuso, nella dimenticanza – si viene presi da una vertigine sotterranea non appena si scopre che il presente dei pescatori interferisce e addirittura sabota il passato del mito e del folklore. E viceversa, perché Agrippina e Nerone, la Sibilla Cumana, il martire Artema, San Paolo, Maria la Pazza, Pergolesi provano ad attirare verso di sé la girandola dei monelli del porto, forse anche nella speranza di affidare loro l’ultima parola, l’unica capace di salvare qualcosa fra le rovine. Così il tempo dei costumi e delle maschere, relegato nella regione avernale, si affaccia tra antri e pozzi e chiese depredate per allertare gli uomini d’oggi (un oggi che oramai è ieri) quanto al rischio della ‘smemorazione’. Non inutilmente, mi sembra, almeno nella verità del film. Perché nella pur incombente crisi della presenza cui, per gradi differenti, tutti i membri della famiglia vanno incontro, si continua a sentire – proprio nel senso dell’ostinato secondo il lessico musicale – l’ostinazione di una certa umanità a preservare qualche frammento di vita autentico, diciamo pure di cultura immateriale. Qualcosa che magari, a differenza della barca e della casa dei Gioia, non diventerà una rovina. Come spiegare altrimenti l’abbraccio in cui si ritrovano Don Salvatore e la figlia Assunta dopo il terremoto? O il bagno dei bambini al tramonto? E soprattutto la richiesta di Don Salvatore a Donna Mena subito prima di morire: “Spostami questi panni stesi da davanti agli occhi”, il cui sottinteso è “perché possa vedere ancora il sole nel mare, il mare nel sole”.

Bisogna veramente amare questa umanità per restituirne la disperazione con tanta accanita delicatezza, e trasmigrare la sua ostinazione al vostro cinema, immaginifico e artigianale. Cinema che sa rispondere alla fame di stati d’animo senza nome, scegliendo di interiorizzare nel proprio linguaggio (e nella lingua dei Gioia) lo scandalo del tempo: di quello che passando tutto corrode e sfascia, di quello che lascia morire d’inedia o murare vivi i santi e i pazzi. In verticale si muove il tempo di Giro di lune, che dal suo epicentro di leggende e racconti tramandati a voce (fino alla voce dolce di Gennarino) risale alla superficie del presente terremotando la città vecchia e con essa l’immagine, il fotogramma rallentato a passo uno, la pellicola graffiata e macchiata, offesa.

A molte scene vorrei riuscire a pensare più distintamente, ma tutto il film mi ripassa in testa non come un nastro da svolgere, come una grafia da leggere con un inizio e una fine, bensì secondo questa direzione di meridiano, lungo la quale basso e alto si scambiano le posizioni a ogni scossa della terra che fu dei Gioia. Per ogni scossa un grumo di emozioni finalmente liberate, e un capogiro. Ora, poi, mi torna in mente la musica del film, bellissima…

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