Nella pubblicazione del marzo 2024, i Cahiers du Cinéma hanno dedicato al cinema argentino l’editoriale Ou va l’Argentine?, con un numero che pone i riflettori su un paese che da ormai quasi trent’anni continua a sviluppare una nuova identità filmica. La rivista, tramite il coinvolgimento di diversi interventi, tenta di rispondere alla domanda anticipando un traguardo raggiungibile dal paese in questione. Parte degli autori intervistati ha manifestato una certa predisposizione a guardare alla storia del cinema, come nel caso di Rodrigo Moreno, regista di Los delincuentes, film presentato al 76° Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard.
Morán, un impiegato di banca, decide di rubare il denaro corrispondente ad una doppia vita di lavoro. È sua intenzione chiedere a Román, suo collega, di nascondere i soldi mentre egli sconta i tre anni e mezzo di pena, con l’intento di – una volta uscito di galera – dividersi il bottino.
Il film si apre su una bellissima ma opprimente Buenos Aires. Il protagonista, appena sveglio, osserva la città dal balcone, volgendo per un po’ lo sguardo verso il cielo. Che stia forse cercando l’orizzonte in mezzo a quella foresta di grattacieli? Ma – appresa la lezione di Ford citata in The Fabelmans (2022) – che succede quando un orizzonte non esiste? Per Rodrigo Moreno, e per i suoi personaggi, questo film è proprio il pretesto per la ricerca di una prospettiva, di uno sguardo (nuovo?). E ancora, è la fuga dall’oltremodo soffocante posto di lavoro, fin da subito presentato come luogo di segregazione. In poche parole, un viaggio alla ricerca della libertà. Indagine presente in un’opera chiave del cinema latinoamericano il cui titolo, tra l’altro, combacia con la condizione prima menzionata, La libertad (2001) di Lisandro Alonso. Un’opera che proprio per il suo marcato desiderio di trovare una strategia di fuga formale, dialoga con il progetto di Moreno. Mentre però Alonso mostrava di contenere tale coraggio in un’unica sequenza (che esploderà poi nei suoi progetti successivi), Los delincuentes nelle sue tre ore di durata, gioca tutte le possibili carte in tavola.
Moreno pensa il suo lungometraggio a partire da ciò che è già cinematografico. La matrice stessa della storia parte dal cliché, dal genere, dal gesto cinematografico in toto. «La salvación del cine está en el pasado», dichiara più volte. E di fatto l’incipit della narrazione è preso da un cult del noir argentino, Apenas un delincuente (1949) di Hugo Fregonese. Ma ci si guardi bene dal credere che Los delincuentes sia un’opera che semplicemente omaggia, tutt’altro. Essa attua piuttosto operazione di decostruzione e ri-significazione del “verbo cinema”. E dunque, proprio all’opposto di La libertad – dove i concetti di “rappresentazione” e “realtà” divenivano sinonimi – qua troviamo una finzione pura. E, laddove esisteva una proposta innovativa di messa in scena, qui si parte da ciò che è già stato raffigurato. In cui, per esempio, la posa del volto è più importante del volto stesso. Un’attitudine che eleva il cinema a fonte primaria, e che consente a quest’opera di giocare “a fare il film”.
Morán e Román si muovono dunque in queste molteplici forme di rappresentazione con l’intento di raggiungere un’indipendenza che, si accorgeranno, non corrisponde al benessere economico. Entrambi, una volta passati i tre anni di reclusione di Morán, si renderanno consapevoli del fatto che la libertà non si conquista tramite il denaro, ma che è un qualcosa che è ancora lì da raggiungere. Così come Norma, la ragazza di cui entrambi si innamorano e che rappresenta senz’altro questa condizione di indipendenza che, proprio in quanto tale, sfugge loro.
Los delincuentes è – così come Norma – sfuggevole e imprevedibile. Un film che, paradossalmente, è tanto derivativo quanto inaspettato e mutevole. «Voglio fare cinema per dialogare con i film che mi piacciono e, di conseguenza, anche con quelli che non mi piacciono. Questo è un modo che mi consente di organizzare il mondo tramite le mie idee, e il mio criterio di giustizia, bellezza e ritmo»: queste le parole del regista in un testo da lui scritto nel 2013 e intitolato Manifesto. Proprio il suo rapporto parentale con il cinema gli permette dunque di divenire orfano e sommarsi così alle voci dei nuovi autori argentini. Sembrerebbe che Moreno, involontariamente, ci stia suggerendo un contro-interrogativo a quello proposto dalla celebre rivista francese. Sarà forse che chiedersi Ou va l’Argentine? equivale a domandarsi – così come intonato nel finale del film – ¿Adónde está la libertad?