Timothée Chalamet non ha niente di particolare. Non c’è niente di eccessivo in lui, nessun segno di troppo, nessun connotato fuori posto, nessuna manifestazione esplicita di carattere. La matematica proporzionalità del suo volto e la fragile nobiltà del suo profilo lo rendono innocuo e affidabile, un bambino quasi, dotato di una soggettività attoriale sessualmente neutra e virtualmente androgina, priva di connotati maschili convenzionali e reali interazioni con la sensualità femminile. È proprio questa la chiave del suo successo. Nessun attore della sua generazione ha il suo seguito e nessuno compete davvero con lui nella gara al consenso spettatoriale di massa giovanile – soltanto Harry Styles genera intorno a sé un fandom collettivo simile. Nessuno come lui è riuscito infatti a fare così tanto con così poco, o meglio, a rendere coinvolgente la propria inoffensiva neutralità, trasformandola in un canovaccio interpretabile a piacimento e leggibile da qualsiasi genere di spettatore, in qualsiasi parte del mondo. Di interpretazione in interpretazione, l’attore franco-americano si è mosso lungo le linee di una mascolinità eterea e di una femminilità inaccessibile, ricombinandole senza mai davvero risolverne l’ambigua dialettica, per offrire al pubblico la possibilità di partecipare alla costruzione della sua identità pubblica e immaginaria e trasformare l’assenza di una direzione di senso (il suo vuoto caratteriale) in un’occasione di astratto coinvolgimento emotivo. I media hanno intuito presto le potenzialità catalizzatrici di questo tipo di divismo ecumenico – notare la sintomatica e unica tendenza social di studiare il suo labiale agli eventi pubblici – ma anche i registi cinematografici non sono stati da meno.
Denis Villeneuve, per esempio, attorno alla pensività e all’ambivalenza di genere di Chalamet, ha costruito il suo Dune. Al regista canadese, l’attività performativa di Chalamet deve essere subito sembrata una perfetta concretizzazione delle angosce interiori di Paul Atreides: un soggetto non dissimile ai protagonisti di Incendies, Enemy, Arrival e Blade Runner 2049, non solo cioè costretto a negoziare con l’incomprensibilità del mondo – un turbinio di frammenti e visioni tra passato, presente e futuro – per trovare il linguaggio con cui scrivere la propria identità, ma anche abitato dalla differenza sessuale. Nel primo capitolo di Dune questo era evidente: Paul sentiva e vedeva la voce di una donna, Chani (il suo doppio attoriale interpretato da Zendaya) e usandola come una bussola superava il trauma del lutto paterno e i suoi valori fallocratici (esemplificati dal coltello/dente). L’insicurezza sessuale di Chalamet era la chiave per entrare in questo gioco di ombre, o meglio, il vettore attraverso cui tradurle visivamente, in uno spettacolo visionario di impulsi e squarci foto-sensoriali interessato a scolpire fuori dal romanzo di Herbert una riflessione sulla nascita della nuova soggettività postmoderna: una soggettività disperatamente bisognosa di sopravvivere all’insensatezza, alla fine delle narrazioni rassicuranti, e capace di farlo solo attraverso la ricombinazione, la ricomposizione collagista di frammentari pezzi di realtà oltre il vero e il falso. Inabissare l’impareggiabile world building descrittivo della prosa di Herbert nell’arena mentale del suo personaggio era però anche l’unico modo per (non) risolvere il problema dell’irrappresentabilità del romanzo e ribaltarne l’epica in una riflessione sul ritorno del rimosso femminile in un universo maschile e sulla traumatica natura della maternità – come sempre in Villeneuve, interprete del postmoderno come un problema identitario (come è possibile essere uno e identico se produciamo, diamo vita solo all’alterità, alla differenza?).
È curioso vedere ora come questo progetto di compressione espressiva sia cambiato in Dune: Parte 2, diverso rispetto al primo capitolo nelle strategie di rappresentazione del romanzo e nella gestione interpretativa di Chalamet. Niente più lettura in contropelo, niente più programmatica rinuncia a ricostruire la scala narrativa originale, niente più interpretazione postmoderna della complessità d’intreccio del romanzo. Ecco piuttosto un tentativo di contenimento della molteplicità letteraria originale (più pianeti, più intrighi, più segreti e colpi di scena), la conseguente manipolazione delle immagini secondo un ritmo più orizzontalmente televisivo che vertiginosamente cinematografico, e l’organizzazione dei temi contemporanei (come le raffinate forme di neocolonialismo) in un’espansione narrativa (o dovremmo dire pericolosamente commerciale?) dell’universo di riferimento, piuttosto che l’esplosione degli stessi attraverso una nuova riflessione formale. Ecco quindi, contestualmente, anche un diverso utilizzo dell’ambivalenza interpretativa di Chalamet, o meglio, l’annullamento di questa stessa ambivalenza, non più necessaria a rappresentare l’evoluzione narrativa di Paul e la sua trasformazione in leader jihadista. Voce più profonda e severa, postura più rigida, ma soprattutto nessuna dialettica femminile nell’economia espressiva: per portare il personaggio alla ricostruzione dei valori patriarcali (ecco il ritorno del simbolico anello) ma anche rispondere come attore alla concretizzazione narrativa del femminile fuori dal proprio corpo. E cioè alla nuova direzione del progetto di Villeneuve, non più interessato a funzionare come cassa di risonanza delle forme contemporanee ma piuttosto indirizzato ad allinearsi alla struttura serializzata che oggi governa le proprietà intellettuali. Aprendo infatti alla cospirazione delle Bene Gesserit, le sacerdotesse responsabili del destino dei personaggi attraverso le loro macchinazioni genetiche, il film sceglie di abbandonare il personaggio di Paul come perno dell’azione e della visione, e di serializzarsi – sia nel prossimo capitolo della saga (quasi confermato), sia soprattutto nella serie sulle sacerdotesse stesse (già in lavorazione, Dune: The Sisterhood).
Chalamet sembra quindi prendere il palcoscenico (molti stanno parlando della sua trasformazione finale in un nuovo livello delle sue capacità attoriali), ma accettando di abbandonare la propria ambivalente neutralità in realtà lo perde. Contenutisticamente lo cede a Zendaya, che con il suo sguardo attonito apre e chiude i due capitoli. Formalmente lo lascia alla struttura narrativa, controllata come si diceva oltre che da Rebecca Ferguson e Charlotte Rampling anche da nuove interpreti femminili, Florence Pugh, Lea Seydoux e (non accreditata) Anya Taylor-Joy. Performativamente lo concede ad Austin Butler, che sceglie non a caso di rappresentare Feyd-Rautha (un feticista con il complesso d’Edipo) secondo il registro del collega nel capitolo precedente: quello di una suggerita ambiguità sessuale. Questa dislocazione del femminile dalla mente di Paul e dal corpo di Chalamet a fini di rappresentazione di genere è di certo un tentativo di aggiornamento del romanzo ai tempi correnti, ma lascia intravedere sintomi problematici di una commercializzazione del femminile piuttosto che segni di una dialettica paritaria. Sia perché in ultimo il racconto resta quello di un protagonista maschile, per quanto virtualmente detronizzato, sia perché sarebbe stato più interessante vedere il femminile al centro di una ristrutturazione sensoriale cinematografica (come faceva intendere il primo capitolo) piuttosto che a capo di una nuova forma di mitologia seriale. Purtroppo, questo secondo capitolo assomiglia a una resa: al romanzo di partenza, che rimane ancora una volta, dagli anni ‘60, il vero punto limite dell’immagine di fantascienza, e alle strategie di sfruttamento della tendenza televisiva che oggi sembrano sempre più controllare gli universi dell’immaginazione e dell’immagine.
Poteva andare diversamente? Chissà. Incentrando il proprio anti-mito su un divo “a bassa intensità” come Chalamet, inadatto a qualsiasi forma di epica ma perfetto per coinvolgere il grande pubblico, e lasciando presagire di voler riprogrammare a livello percettivo l’iconografia maschile della materia letteraria, Villeneuve aveva trovato un modo sottile per portare nel mainstream e nell’immaginazione globale una possibilità di ripensamento delle logiche industriali e delle narrazioni patriarcali. Ad Hollywood però non sembra esserci molto futuro commerciale per una riflessione spettacolare ma critica e postmodernista sulla fine delle grandi mitologie (vedi l’insuccesso di Blade Runner 2049, ora anch’esso trasformato in serie): piuttosto che abbattere i miti originari si preferisce provare a costruire miti di seconda mano, che iniziano sul grande schermo e continuano sul piccolo. Non sappiamo ancora quali saranno i divi di questi nuovi format, ma è probabile che seguiranno paro paro la transizione mediale aperta dalle star del presente: prima catturando l’attenzione mediatica attraverso la loro neutralità postmoderna, poi cedendo il pubblico calamitato alla struttura di sfruttamento commerciale. Chalamet è solo l’ultimo agente di questo cambiamento, annunciato in realtà già nel primo decennio degli anni 2000, quando si scelse di portare in scena la saga di Twilight (romanzo fondativo della nuova letteratura young-adult) attraverso il corpo e il volto dell’attrice americana che prima di tutti ha aperto la stagione del divismo androgino e puberale: Kristen Stewart.