A dieci anni dal suo ultimo lavoro semiautobiografico Abuse de faiblesse (2013) e oggi settantacinquenne, Catherine Breillat, che da sempre mira a sovvertire una rappresentazione della sessualità femminile addomesticata e censurata da una cultura fatta dagli uomini per gli uomini, torna dietro la macchina da presa per dirigere un remake. Ancora un’estate, presentato in concorso alla passata edizione del festival di Cannes, si basa sul film danese Queen of Hearts (2019) di May el-Toukhy, applaudito dalla critica a Rotterdam e al Sundance, per dare vita, tramite variazioni sottili ma sostanziali, a un’opera che elude ancora una volta i cliché e porta sullo schermo un desiderio ambiguo e decisamente poco conciliante.
Il film di el-Toukhy racconta infatti la relazione quasi incestuosa della borghese di mezza età Anne con il suo figliastro diciassettenne Gustav. Dall’altera freddezza del setting e della protagonista (Trine Dyrholm), Breillat si sposta in una soleggiata e benestante periferia francese. Lei (Lèa Drucker) è sempre ricchissima e come la Anne scandinava è un’avvocatessa specializzata in casi di minori abusati, ha un marito manager educatamente innamorato che lei stessa definisce “normopatico” e due bambine da copertina. Come nell’originale non le manca nulla, persino la sorella estetista che le fa le unghie. La variazione tra le due opere si gioca dunque tutta, prevedibilmente, sull’architettura del personaggio femminile e sull’essenza del rapporto con il figliastro (Theo, nella versione francese).
La riscrittura dall’originale ben si presta al prosieguo di un discorso sul disallineamento tra costruzione patriarcale del femminile ed effettiva esperienza delle donne. Quello di Breillat è un cinema controverso e intransigente che, in una cultura che polarizza la donna tra repressione sessuale e pornografia, si insinua nella zona grigia degli aspetti più complessi e forse anche inquietanti del desiderio femminile. È uno spazio decostruito, dove la sessualità viene esplorata al di fuori delle consuete logiche mediatiche estetizzanti ed erotizzanti che escludono dalla narrazione dinamiche di potere disomogenee, vergogna, impotenza ed effetti della violenza maschile sull’immaginario sessuale della donna. Se in Romance (1999) si apriva un varco per i desideri di oggettivizzazione di una ragazza che intraprende una relazione sadomasochistica chiedendo di essere ridotta a “un buco”, passando per la fantasia di stupro di una bambina di dodici anni nel caso di Fat Girl (2001), in Ancora un’estate al centro è la passione di una donna matura nei confronti di un minorenne. L’obiettivo di Breillat è il raggiungimento di un’ambiguità di fondo, un’impossibilità di acquisire una postura giudicante nei confronti dei suoi personaggi e di fornire letture univoche delle loro condotte, creando per lo spettatore e la spettatrice un prezioso spazio di autoriflessione ed esplorazione del sé. Per questo motivo, ciò che l’autrice francese lascia anzitutto indietro di Queen of Hearts è la dimensione predatoria del suo personaggio, elemento invece centrale nel film danese. Se la Anne di el-Toukhy avvicina e seduce il figlioccio approcciandolo fisicamente mentre si trova nella sua stanza, il personaggio di Breillat è più “innocente”, spensierata mentre si dà alla relazione con il diciassettenne quasi che il muro anagrafico che li separa fosse completamente svanito.
Lasciandosi trasportare dalle note di Dirty Boots dei Sonic Youth in una decappottabile e rimpiangendo con nostalgia del possibile l’epoca della rivoluzione sessuale, seguita dalla castrazione dell’AIDS negli anni ’80 dopo la quale “è finito tutto”, Anne apre a un discorso che porta avanti la poetica di Breillat ma forse si concilia poco con il contesto in cui si colloca il personaggio. Inevitabilmente, la naturalezza con la quale si dispiega il desiderio di Anne, tutt’altro che perverso, si scontra con il suo potere. Si tratta pur sempre di una ricca avvocatessa di successo votata alla causa dell’abuso su minori e, per questo motivo, tutto il film di el-Toukhy si costruisce sulla credenza di questa “Woman of power” di essere in qualche modo immune da dinamiche abusive. Proprio in quanto donna e madre di famiglia si veste della convinzione di non avere nulla a che fare con i “mostri” contro i quali si batte quotidianamente, scoprendo poi nel finale che le conseguenze del suo desiderio (e soprattutto del rinnegamento a ogni costo dello stesso) si abbattono tragicamente sull’amante e sulle persone a cui vuole bene. In entrambi i film il personaggio di Anne non si assume la responsabilità delle sue azioni, mentendo e negando la propria condotta per proteggere la gabbia sociale che abita, sfruttando la propria posizione e la rete di complicità del suo nucleo familiare. Nel caso di Queen of Hearts però viene restituita la complessità di un personaggio fondamentalmente negativo e manipolatorio, mentre nel film di Breillat l’eliminazione di questo aspetto, per quanto alla base coerente con il discorso autoriale, semplifica un po’ troppo le cose e non si sposa con le linee narrative originali, creando un personaggio che si autoassolve un po’ troppo facilmente. A tal proposito May el-Toukhy afferma: “Uguaglianza non significa solo valorizzare gli aspetti positivi di una donna in un film. È anche audace rappresentare il male. Ciò che può essere visto come radicale o controverso a riguardo deriva dal fatto che non abbiamo abbastanza personaggi femminili”. La legittimità del desiderio (e dell’essere desiderabile) di Anne non viene dunque meno se problematizzata dalla struttura di potere in cui è inserita e con la quale, prima o poi, deve fare i conti.
Interessante è anche come per un aspetto chiave dei film, ossia la modalità con la quale vengono filmati i rapporti tra i due, le registe adottino approcci antitetici. Se in Queen of Hearts l’attenzione è sull’incontro-scontro dei corpi, sulla pelle molle del ventre di Anne solcata dalla cicatrice del parto, sulle rughe del volto mentre pratica del sesso orale sul corpo minorenne del figliastro, Breillat, lesinando sulla consueta esplicitezza, questa volta si fa ispirare dall’estasi della Maria Maddalena di Caravaggio e si concentra sui volti, in particolare su quello della sua protagonista a cui sono dedicati lunghi piani di reazione durante l’orgasmo, e sui quali è dipinto un piacere che trascende l’esperienza carnale. Nel tentativo di accedere all’inespugnabile fortezza del desiderio femminile la messinscena rifugge, come d’abitudine nel suo cinema, modalità di rappresentazione realistiche, affidandosi a riferimenti pittorici, spesso anche esplicitati nel profilmico. Fedele a una poetica spiazzante, la chiusa del film offre una chiave di lettura alla vicenda non dissimile da quella del già citato Fat Girl: la protagonista si sveglia e viene travolta da quella che è a tutti gli effetti la realizzazione di una fantasia sessuale che, resa manifesta, si abbatte con noncuranza sulla morale di coloro che la circondano. Anne, dopo un rapporto consumato fugacemente in giardino con il giovane amante, si infila di nuovo nel letto coniugale dove, finalmente propensa alla confessione, viene silenziata dal marito che si configura come nuovo complice del suo desiderio. Sovvertendo ancor più le logiche di emancipazione sessuale, la giovane Anaïs di Fat Girl emerge da un bosco dove nella notte è stata presa con violenza da un uomo adulto. La ragazzina nega insistentemente di essere stata stuprata e, sguardo in camera, invita i poliziotti che la scortano (e chi la guarda da uno schermo) a crederle oppure no. Poi il suo volto si congela e i titoli di coda iniziano a scorrere mentre allo spettatore non resta che fare i conti con i desideri manifesti della sua sessualità.
Guardando entrambi i film, Queen of Hearts e Ancora un’estate partono dalla stessa materia per esplorarla con sguardi differenti ma accomunati dalla medesima volontà di restituire una complessità quasi sempre negata, e viene allora spontaneo sottolineare l’importanza di dare voce ad autrici che possano raccontare le profondità di un abisso al quale, come suggerisce lo sguardo della piccola di Anaïs, si ha ancora troppa paura ad affacciarsi.