Nato nel 2011 per mano dei neozelandesi Matthew Buchanan e Karl von Randow, Letterboxd si è sempre più imposto negli ultimi anni come la principale piattaforma social dedicata alla cinefilia contemporanea. Il servizio, gratuito per gli utenti base e disponibile in versione Pro e Patron con la sottoscrizione di un abbonamento, consente di catalogare, recensire, votare e condividere con altri utenti circa 870.000 film. L’archivio non si compone di sole opere cinematografiche: senza che sia mai stato del tutto chiarito il criterio, la presenza di moltissime miniserie e serie limitate è sempre stata ben accetta. È degli ultimi mesi la notizia, accolta in maniera controversa da molti utenti, che Letterboxd implementerà al suo catalogo anche le serie tv a più stagioni. Il database, mutuato da The Movie Database (TMDB) e in costante evoluzione, è infatti aggiornato dagli utenti stessi con la supervisione dei moderatori. Un archivio vivo e onnicomprensivo che nella quasi totalità dei casi garantisce all’utenza di poter rintracciare anche titoli nascosti negli anfratti più oscuri della cinematografia globale.
Non è di certo insolita la comparsa in database di prodotti audiovisivi reputati non consoni alle linee guida della piattaforma che, proprio perché fuori formato, vengono ben presto rimossi. Degni di nota sono però alcuni episodi in cui film con piena titolarità di apparire sul social, subiscono lo stesso trattamento senza alcun motivo apparente. È il caso, tra i vari, di Tumbling Doll of Flesh (1998), splatter movie pornografico giapponese dai contenuti tanto estremi quanto puerili, per quanto legittimati da un fine artistico o quantomeno intrattenente. Eppure nel corso degli anni la pellicola sembra sottoposta a una triste sorte censoria dal momento che, fino a prova contraria, la presenza di opere erotiche/pornografiche è diffusissima sulla piattaforma. Dopo vari e ripetuti reinserimenti da parte degli utenti, Letterboxd pare aver finalmente acconsentito alla presenza di questo come di altri lavori dal tono scabroso, il tutto però con un lato negativo: tali film non sono indicizzati nella barra di ricerca. Sono molte e molto riconosciute le pellicole che rientrano in questa tacita categoria. Titoli come Deep Throath (1972) o The Opening of Misty Beethoven (1976) sono nascosti da quello che dovrebbe essere lo strumento cinefilo più esaustivo esistente oggigiorno per la catalogazione della storia del cinema, e diverte contrapporre a questi casi, come contraltare di riflessione, un episodio di un paio di anni fa che ha destato l’ilarità e l’incredulità di molti cinefili social e cioè l’upload su un sito porno di svariati film diaristici della statunitense Anne Charlotte Robertson, introvabili sino a quel momento se non sul privatissimo Karagarga. Sorge dunque spontaneo chiedersi: come, perché e da chi vengono definiti questi confini?
La stessa interfaccia utente su Letterboxd in effetti è contraddittoria. Da un lato incentiva a partecipare all’attività bottom-up di un archivio a sorgente aperta, aggiungendo informazioni e ridistribuendo contenuti; dall’altro costringe a fare i conti con le costrizioni top-down di un regolamento aziendale che assomiglia più a una forma cinefila di netiquette piuttosto che alle linea editoriale di una curatela. Un po’ aperta, un po’ chiusa, la forma della piattaforma è stata ambigua dall’inizio ma chiaramente ispirata alla logica partecipativa di un social a commento scritto come Twitter: la logica del thread. E cioè un continuo scorrimento, che si sviluppa soprattutto secondo l’asse verticale e si nutre dell’incastro potenzialmente infinito di interazioni tra utenti diversi – che possono commentare, commentare commenti altrui, segnalare gradimento per i contenuti aggiunti da altri, indicizzare, creare liste private e pubbliche e così via. Questa modalità di fruizione è ormai tanto radicata nella nostra quotidianità social da non essere minimamente interrogata. Eppure è foriera di sintomi socioculturali, primo dei quali il graduale ritorno a una modalità di lettura antica che non si vedeva in occidente dall’invenzione della pergamena, e cioè il modello del papiro. La verticalità dello scrolling non ricorda infatti per niente la ricerca orizzontale del codice in pergamena e del libro su carta, piuttosto corrisponde alla lettura papiracea su rotolo, e cioè a un tipo di lettura in cui gli occhi del lettore vanno su e giù senza puntualità, senza precisa concentrazione, senza la pressione del tempo e senza la pressione dell’obbligo di referenza – il codice venne abbracciato proprio perché consentiva di individuare le citazioni più velocemente, compito essenziale per i biblisti o i giuristi.
Occorre proprio in questo senso segnalare che la verticalità dispersiva del thread appare, nella sua incompatibilità con la forma libro, un confine informale forse più problematico delle estemporanee, indecise e spesso fallimentari forme di censura imposte dalle guardie di Letterboxd. Perché mentre il principio di esclusione su cui la piattaforma si regola influenza fino a un certo punto le aspettative progressive e collettiviste degli utenti – che continuano comunque a proporre una riscrittura aperta delle informazioni, contando sull’illuminismo dell’archivio open source alla base –, la logica di scorrimento dispersivo invece manipola la consultazione dei contenuti archiviati in un senso forse regressivo e privatistico. Se da un lato l’aggiunta collettiva dal basso di contenuti archiviabili suggerisce la possibilità di una scrittura condivisa della storia, senza mâitre à penser e ideologie abbinate, dall’altro la modalità con cui l’azienda suggerisce di viaggiare nella piattaforma incentivano a privatizzare questi stessi contenuti: “track the film you’ve watched” – quindi scorri e rintraccia –, “save the film you want to see” – di nuovo salva, fai tuo, “tell your friends what’s good” – e infine condividi, apri una discussione. Se parlassimo solo di un social queste contraddizioni non sarebbero problematiche, ma Letterboxd non vuole essere solo un social, anzi, scegliendo una strategica neutralità di pensiero sembra voler confermarsi come un attore sempre più centrale nel modo in cui conserviamo informazioni sul cinema che guardiamo. La domanda quindi è: cosa succede quando un social gioca con la storicizzazione?
La storia si rimodula in una maniera non così dissimile da come il presente si trasfigura attraverso le lenti con cui i social lo inquadrano. Del resto, per quanto possa configurarsi come uno spazio aperto e, in apparenza, privo di gerarchie interne all’utenza, anche su Letterboxd si ripresentano fenomeni già noti in altri lidi virtuali come, ad esempio, la presenza di utenti che assurgono allo status di influencer. Che siano perfetti sconosciuti o star internazionali – queste sempre più presenti, da Sean Baker fino alla recente apertura del profilo ufficiale di Martin Scorsese – la tendenza della comunità sembra verticalizzarsi sempre di più. A rafforzare il tutto anche istituzioni come festival, riviste di critica, distributori ecc. stanno cercando, con risultati altalenanti, di affermarsi sulla piattaforma, supportate dalla possibilità di aprire un profilo denominato “HQ” che conferisce, come una sorta di spunta blu, garanzia di legittimità. Ma quindi perché Letterboxd, salvo pochi e virtuosi casi, sembra mosso da questa gerarchizzazione? La risposta, probabilmente, risiede in gran parte nel fenomeno della “tendenza”. Quando si apre l’app la primissima cosa che il layout ci mostra sono i “Popular this week”, al centro troviamo i “New from friends” e ancora sotto i “Popular with friends”. Tutto a un tratto sembra che la popolarità sia una questione piuttosto centrale per la piattaforma.
A riprova di ciò si aggiunge anche il fatto che sin dalla sua nascita, Letterboxd ha avuto sei film che nel corso degli anni si sono scambiati il titolo di “highest-rated narrative feature”: The Godfather (1972), Parasite (2019), Everything Everywhere All at Once (2022), Come and See (1985), Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) e Harakiri (1962). Ora, che almeno tre di questi siano dei capolavori imprescindibili della storia del cinema, alcuni dei quali già ai vertici di molte classifiche ben più autorevoli, è fuori questione. Ma le storture del sistema iniziano a palesarsi quando la tendenza si sostituisce al valore critico e storico. Sì, perché sembra quasi che tutti gli ingranaggi della piattaforma concorrano alla propulsione del trend, alla condivisione del film del momento, rendendo il film stesso trend da seguire, commentare, aggiungere al proprio diario. Tutto affinché il film compaia in ciascuno dei tre caroselli della prima pagina in apertura di app. Fa strano a dirsi ma su Letterboxd sembra quasi che i veri influencer siano i film stessi e gli utenti, anche quelli più seguiti, siano al servizio del trend. Una tendenza fatta di film che, a prescindere dalla loro qualità, riescono purtroppo o per fortuna a essere pop, accessibili, pervasivi. E più il commento lasciato dall’utente è breve e ficcante, più questo viene apprezzato. Per Letterboxd, questo farsi collettivo all’apparenza orizzontale e condiviso della storia del cinema assume sempre più le sembianze di una più ampia strategia di marketing di cui la piattaforma è solo parte. A settembre 2023 infatti, una holding canadese ha acquistato il 60% delle quote della società, valutandola attorno ai 50/60 milioni di dollari.
Il cinefilo su Letterboxd in qualche modo aggiorna sia lo spettatore collezionista di cui parlava Casetti ne La Galassia Lumière sia il fan come prosumer in grado di riscrivere l’universo della fruizione al centro della Cultura Convergente di Jenkins, e si certifica sempre di più come un agente produttivo che viaggia a piacimento nella storia per collezionare e riorganizzare “contenuti” secondo un gusto sempre più presentificato dalla tendenza, e sempre meno stratificato dalla coscienza storica. Il suo campo d’azione non è infatti l’orizzonte ampio della storia ma il corto raggio del presente, o meglio ancora della stagione. Come insegna la semantica della moda, la stagione non è mai solo una cornice temporale ma anche un set di regole, che impongono il discorso, il tema, la questione urgente da trattare (fino a quando l’agenda culturale non impone di cambiare discorso), offrendo la possibilità di scegliere il proprio posizionamento culturale rispetto ad essi, e quindi fissare la propria identità – in maniera intercambiabile e al passo con i tempi, senza troppo impegno. Come insegna invece l’economia della moda, questo stesso processo di identificazione non è prodotto da una matrice neutrale interessata a facilitare la congiunzione del proprio sé con la propria aspirazione identitaria ma di solito da un mercato. Che non ha intenzione di risolvere la confusionaria frammentarietà del tempo corrente ma preferisce invece presentare offerte di conservazione momentanea di questa frammentarietà: piccole cornici di senso, di gusto, in cui accoccolarsi per sentirsi al sicuro.
Ora che una holding ha individuato la piattaforma come asset economicamente interessante, occorre chiedersi se le modalità di formattazione del gusto social che già operano su Letterboxd si radicalizzeranno in termini di sorveglianza e tracciamento delle preferenze, pubblicità personalizzata e consumo interno all’esperienza utente (già in parte presente). In gioco c’è la storia del cinema – già deglutita dall’algoritmo preferenziale – ma anche l’esperienza spettatoriale – da sempre perfetta testa di ponte utilizzata dal mercato per sfondare le porte della quotidianità. Mentre anche piattaforme nobili e impegnate come Mubi iniziano a fondersi economicamente con realtà commerciali (vedi la recente fusione con The Match Factory) e a leggere la storia del cinema come il vuoto di mercato, o meglio, la fonte mineraria di proposte esperienziali accattivanti per il pubblico globale, la cinefilia contemporanea dovrà imparare a difendere sia la prima che la seconda, negoziando sul campo della decisione estetica (e cioè della scelta di gusto) con i venditori che si presenteranno alla sua porta. Sperando che di fronte alle seducenti offerte, la voce della coscienza storica (“Timeo Danaos et dona ferentes”) si farà più forte delle orecchie da mercante.