Quasi a mo’ di risposta a coloro che (erroneamente) lo hanno sempre ritenuto cinico, Yorgos Lanthimos realizza un film che invita lo spettatore a credere a un personaggio, e a parteggiare emotivamente per lui.
Anzi no: per lei. Bella Baxter, cadavere rianimato dal cervello del feto che alla morte portava in grembo, grazie a uno scienziato (non poi così) pazzo che la rinviene e la prende in cura, fino a che un notabile londinese la porta in giro per l’Europa, facendole esplorare il mondo e creando così una reazione a catena grazie a cui, dopo essersi sbarazzata di lui e delle sue lagne narcisiste, diventa un soggetto pienamente cosciente, a tutto tondo, che sa quello che vuole e lo ottiene. Inevitabilmente, nel 2023, il soggetto deve essere l’emancipazione femminile. Il discorso impostato da Lanthimos, tuttavia, non è meramente modaiolo: innestandosi sulle coordinate della fantascienza, Povere creature! parte dal presupposto che sì, per davvero l’essere umano è mutato in qualcos’altro, e questo qualcos’altro ha reso antiquato il soggetto maschile.
Qui però abbiamo già uno slittamento importante. La mutazione dell’umano non è solo protratta verso il futuro. È invece una mutazione iscritta già nelle coordinate di quel passato da cui proviene il nostro presente: la società vittoriana. Non v’è chi non veda che è a quel tipo di società che l’Occidente, in piena regressione socio-economica, sta ritornando. Ma proprio in quella società vittoriana che, a fine Ottocento, raccolse gli orrori lasciati al capo opposto di quel secolo da un capitalismo nascente e già reo di autoelevarsi impunemente a Dio (è questo che racconta, traslatamente, il romanzo gotico, e soprattutto quel Frankenstein che è riferimento inequivocabile di Povere creature! già a partire dalle fattezze del protagonista), balenò l’idea che il soggetto femminile è un corpo staccato dal cervello e quindi soggetto ideale per usare il cervello come uno strumento col quale sviluppare l’intelligenza esplorando i sensi come fossero un corpo estraneo. Soggetto ideale, dunque, di quel romanzo di formazione di cui la letteratura vittoriana ci ha dato tanti e fulgidi esempi.
Quella che, guardando indietro verso il secolo decimonono, non possiamo non considerare come intollerabile misoginia si rivela, se torniamo invece a rivolgere gli occhi verso il nostro presente abitato in più maniere dalla discrasia sempre più acuta tra corpo e cervello, come avanguardia di una concezione di umanità mutante imperniata sul soggetto femminile. Avanguardia, questa, che non potrebbe essere più distinta dalla spazzatura “postumana” che ha infestato media, editoria, università e quant’altro negli ultimi decenni.
Lanthimos è chiarissimo in proposito: il mondo che mette in scena è indubbiamente futuro, con tram volanti e quant’altro, ma è anche identico al mondo vittoriano, passato, le cui impasse dobbiamo ancora superare. La storia che racconta è in tutto e per tutto un romanzo di formazione vittoriana tradizionalissimo, gran tour in Europa compreso. Certo, le stranezze, i dialoghi bizzarri, le sublimi e antinaturalistiche decorazioni scenografiche e fotografiche (diversissime per ognuno dei tre atti del racconto, e coerenti correlativi sensoriali di ognuno di essi in modi che meriterebbero una trattazione più ampia) offrono quel tanto di straniamento che il teatro, terreno di compromesso illuminato tra la logica e il corpo, produce quando portato alle estreme conseguenze della sua vocazione razionalistica senza curarsi delle spigolosità che mettono in crisi la plausibilità dell’insieme – e tutto ciò ha un cognome e un paio di nomi, Rainer Werner Fassbinder: in nemmeno un quarto d’ora Lanthimos omaggia Martha, La paura mangia l’anima e Querelle con tanto di cammeo di Hanna Schygulla.
Come Fassbinder, e come la sua Bella Baxter, Lanthimos ingaggia col marxismo un corpo a corpo appassionato, incurante di qualsiasi ortodossia. L’obiettivo è l’autodeterminazione, ma per farsi soggetto Bella deve prima diventare un oggetto: solo prostituendosi, Bella può cominciare il processo che la porterà alla piena autocoscienza – anche perché così si emancipa economicamente dall’insopportabile pretendente Wedderburn (nome che genialmente sintetizza una serie infinita di maschi della letteratura vittoriana, buoni per l’altare solo in apparenza). Il contrasto tra lei e Wedderburn è, peraltro, quello decisivo: Wedderburn è un relitto, perché impersona ciò che della civiltà vittoriana non ci serve più: l’anima. Bella, invece, è sprovvista di anima, ma non di spirito: lo spirito essendo ciò attraverso cui quell’oggetto che è (diventato) l’umano può diventare soggetto acquisendo coscienza di se stesso. Fuori dall’equivoco che vuole l’umano qualcosa di più della semplice materia animata, esso si palesa meno di un oggetto (“poor things”, appunto), ma proprio nel suo essere un oggetto incompiuto risiede la possibilità di essere un soggetto autocosciente, materia cosciente di se stessa e dunque capace di autodeterminazione. Ma dell’autodeterminazione vera (il corpo che crea se stesso passando per il cervello), non di quella vanamente prometeica del padre di Bella, che si sostituisce al creatore, e che solo la sua creatura affettuosamente redimerà.
La via di Lanthimos al materialismo, squisitamente contemporanea, è dunque un cervello che esplora il corpo, e dunque il mondo, senza più nessuna pretesa di armonia tra l’uno e l’altro. Ne consegue (oltre a un linguaggio che più è preciso e meno sembra naturale) un’estetica che sovverte, compiendola, l’estetica moderna, figlia dell’illuminismo. Prima dell’Aufhebung della terza parte (quella finale, che ritorna a una verosimiglianza sensorialmente arricchita) e dopo la prima (tutta interna alla magione dello scienziato non-poi-così-pazzo col suo illuminismo malriposto ma non troppo, ed esibente una straripante congerie di pattern decorativi e stili fotografici in bianco e nero, sintomi di una dissimmetria tra sensi e ragione che vedono i primi in posizione di sfavore), la seconda parte gioca non solo (come poi tutto il film) sugli anacronismi grafici di architetture, arredamenti etc., al contempo arcaici e futuribili, ma anche e soprattutto su cromatismi dissonanti eppure seducenti, colori che fanno a cazzotti gli uni con gli altri ma non smettono di stimolare l’occhio piacevolmente: a venire ricercata è dunque una armonia sconosciuta dentro la disarmonia, trionfo e superamento dell’estetica moderna. “Zucchero e violenza”: questo è, secondo le sue stesse parole, il mondo di cui Bella fa esperienza una volta uscita dalla casa “paterna”. Questo è il mondo con cui l’umano deve familiarizzarsi per trovare una nuova quadra tra i vecchi dualismi mai risolti: sensi e ragione, corpo e cervello, materia e spirito.