Uno sparo. Vicino o lontano, eco o strappo violento, poco importa, tanto lo spazio e il tempo paiono non avere più alcuna presa sulla realtà. È uno sparo a tormentare e chiudere gli ultimi due film, guarda caso entrambi giapponesi, di Ryūsuke Hamaguchi e Shin’ya Tsukamoto. Invisibile, è uno sparo a rompere l’equilibrio di Evil Does Not Exist e Hokage, rispettivamente presentati nel concorso ufficiale e negli Orizzonti di Venezia 80. Un equilibrio eminentemente orientale, dharmico, come una legge naturale o cosmica che dir si voglia, alla quale gli uomini sono chiamati a rispondere per ristabilirne l’ordine.
L’esterno invade l’interno: Evil Does Not Exist racconta di una ristretta comunità rurale intenta a difendere il proprio territorio dalla costruzione – per conto di una società della ben più popolosa Tokyo – di un sito di glamping (l’esperienza del camping unita al lusso glamour di un resort), i cui scarichi andrebbero a inquinare le risorse idriche del villaggio. Hokage, guidato dallo stesso moto centripeto, si svolge per l’interezza del primo atto all’interno di un piccolo ristorante abitato da una giovane vedova, costretta a prostituirsi per la propria sopravvivenza economica nell’immediato secondo dopoguerra. Questo spazio domestico è invaso e poi coabitato da altri due personaggi, un orfano di non più di sette anni – che si scoprirà custodire all’interno del proprio fagotto un’arma da fuoco – e un reduce di guerra segnato da un violento disturbo da stress post-traumatico. Così come questi tre personaggi saranno in grado di ristabilire, per un breve momento, una sorta di normalità famigliare ormai perduta, anche i due responsabili del progetto di glamping faranno in modo di farsi ben accogliere, non senza quale reticenza, dai burberi paesani ritratti da Hamaguchi.
Ma l’invasione di una forza nell’altra crea squilibrio. Uno squilibrio destinato a sfociare in una scissione sanabile solo grazie a due strategie che vanno di pari passo: l’una narrativa e l’altra formale. La figlia di un abitante del villaggio, più precisamente colui che introduce ai tokyoti lo stile di vita della comunità, solita camminare da sola nei boschi innevati, si smarrisce. Parte allora la ricerca della piccola che, in una sequenza finale al limite del delirante, vede un repentino susseguirsi di effetti senza un’apparente causa. La bambina smarrita, raggiunta dal padre e da uno dei due responsabili del glamping (l’altra, ferita alla mano da un arbusto, resta a casa), è sdraiata a terra, priva di coscienza. Accanto a lei un cervo (la presenza dei cervi è un altro, importante deterrente alla costruzione del sito) ferito da un colpo d’arma da fuoco. Il padre, inspiegabilmente, uccide per soffocamento l’uomo di Tokyo per prendere in braccio la figlia nel tentativo di portarla in salvo senza che ci sia dato sapere se sia ancora viva o meno. La ricostruzione degli eventi è possibile però grazie a due elementi che dissemina Hamaguchi durante la visione: l’avvertimento che i cervi, se feriti, potrebbero diventare aggressivi e lo sparo in lontananza che sentiamo più volte e che richiama l’attenzione dei personaggi.
Anche le forze in gioco nel trio famigliare di Hokage sono spezzate dal suono di uno sparo che risveglia nel soldato lo spettro di una violenza mai elaborata, anzi pronta a essere riversata sulla donna e, con ancor più brutalità, sul bambino. Il nucleo si spezza, il soldato è scacciato e dopo una convivenza più o meno lunga tra il piccolo e la madre surrogata, questa cade a sua volta preda di una psicosi che costringe, di nuovo, il ragazzino al vagabondaggio. Questa volta però non sarà solo: un altro reduce di guerra, interessato all’arma da fuoco del bimbo, lo porta con sé per un sentiero che conduce alla vendetta nei confronti di un uomo, il suo ex generale di plotone. Ed ecco che la prima soluzione (narrativa) atta a ripristinare l’equilibrio venuto meno entra in campo, e si traduce in quella che potrebbe essere definita come un’ineluttabilità degli eventi. Tanto in Evil Does Not Exist quanto in Hokage giunge un momento in cui i personaggi non sono più mossi da volontà propria ma paiono invece come abitati da una forza cosmica, che porta il contadino di Hamaguchi a uccidere l’invasore e il reduce seguito dal piccolo di Hokage a compiere la propria futile vendetta: “War is over!” urla l’ex generale implorando pietà, ma solo la sua morte può far sì che la guerra si consideri conclusa.
La seconda strategia messa in atto dai due film ha natura formale: l’unico modo per sciogliere questa scissione tra interno ed esterno e la loro impraticabile convivenza consiste nel collasso, ricercato, della realtà e nella rottura delle sue prospettive spazio-temporali. E cosa meglio della settima arte può fare ciò? La scena più schizofrenica di Hokage mostra proprio questo ribaltamento quando un movimento di macchina altezza tatami rivela che sul pavimento del ristorantino si staglia una cittadina completamente carbonizzata (che può facilmente ricordare Hiroshima o Nagasaki). L’esterno invade l’interno e i ruoli si invertono. Questo crollo prospettico ha a che fare però principalmente con lo sparo, gli spari, che più volte risuonano. La prima domanda, quella più semplice a cui rispondere, potrebbe essere: dove è avvenuto lo sparo? Nel fuori campo. Mai si vede l’origine del colpo e se ne odono soltanto le ripercussioni. Quando è avvenuto lo sparo? Nel passato, nel futuro? Lo sparo sembra contorcere il tempo e, come un quadro cubista, appiattirne la superficie in una dimensione piana, quasi fosse un ponte di Einstein-Rosen. Lo sparo, come un trauma eterno, perseguita le menti dei personaggi e sembra impossibile da esorcizzare.
Ma la domanda più importante è: chi ha sparato? Questo sparo fantomatico (nel senso letterale del termine) pare non avere agente. Svuotato di un colpevole, attribuito a una dimensione inconoscibile come quella del fuori campo. L’unica cosa nota, certa, è che a essere vittime di quest’atto violento, di questo squilibrio nel mondo, altro non siano che due bambini.