Una donna filma i suoi passi verso l’Ospedale Tenon di Parigi, anticipandoci l’origine della sua ricerca: da dove arriva? Dall’esperienza della produttrice che, in cura per una malattia rara al Tenon, ha scoperto “un mondo principalmente femminile”. È proprio in questo momento che la camera viene affidata a una terza persona e il film assume un punto di vista esterno: ora la regista è ripresa, non comanda più le inquadrature, ma viene rappresentata.
Our Body di Claire Simon, presentato alla 73esima edizione della Berlinale, indaga con stile wisemaniano (la regista ha filmato per sette settimane) i percorsi di ospedalizzazione che coinvolgono principalmente il corpo femminile. Our Body è il corpo delle donne, ormai metro e misura della situazione politica di un paese, qui colto in tutti i suoi stati di età e desiderio. Simon ci racconta una cronistoria dei corpi: la (mai nominata) endometriosi, il parto, la fecondazione assistita, il cancro al seno, la transizione di genere, l’aborto spontaneo o volontario, la nascita di una nuova vita e la morte. In modo approfondito e con uno sguardo delicato entra con parsimonia nelle vite altrui per estrapolarne una cartografia di emozioni e sentimenti, ma soprattutto per tracciare il funzionamento biologico del corpo femminile, per vedere (e quindi capire) questa potenza e complessità.
Le immagini dei dialoghi tra dottori e pazienti si alternano a quelle delle operazioni. Dentro un’operazione per endometriosi, dentro a un parto cesareo, e fuori: emotivamente distrutti dalla notizia di un cancro ormai allo stadio terminale. Un’operazione filmica, quella di Our Body, che si avvicina alla ricerca di Castaing-Taylor e Paravel in De Humani Corporis Fabrica (2022). Ma a differenza del duo di registi antropologi, Simon non lavora soltanto sulla potenza visiva, ma anche su quella narrativa e quindi politica. Indaga con lo sguardo e rappresenta la realtà sfidando chi guarda a capire, comprendere, andare in profondità rispetto al complesso meccanismo del corpo.
Il cinema di Claire Simon permette di vedere davvero, come in Récréations (1998), dove il semplice filmare l’intervallo di alcuni bambini di un asilo francese rendeva già chiare le dinamiche sociali (ruoli di genere inclusi) insediatesi nei comportamenti e nelle azioni dei bambini. Come in Hospital di Wiseman (1970), Simon si addentra in una struttura istituzionale funzionante, con i suoi equilibri e gli eventi inattesi (l’undicenne che deve abortire), per mostrare la processualità organica di un ospedale e il rapporto che si instaura tra dottori e pazienti.
Spesso dominati reciprocamente in un gioco di potere, in Our Body rappresentazione e sguardo trovano un punto di congiunzione: la rappresentazione plastica ma emotiva della regista si fonde con il suo sguardo così profondo da avere la capacità di essere ri-guardato. È qui che Simon scopre di avere un cancro al seno, rendendo l’atto di filmare non più un atto di potere, ma di totale unione e immedesimazione con i e le pazienti. Dal racconto in prima persona, infatti, Our Body si trasforma per diventare un racconto in terza. Ed è qui il nucleo sperimentale del film. Questo passaggio costante (una messa alla prova) dal raccontare all’essere raccontati. Our Body si fa portatore di un cinema che recupera anni di evasione dello sguardo sul corpo femminile. Rimuovere lo sguardo significa allontanarsi e misconoscere il complesso funzionamento del corpo femminile: è per questo che Simon ci fa vedere, e vedere significa dare diritto di esistenza ai corpi reali, non quelli patinati delle pubblicità che alimentano uno sguardo che non esiste nella realtà. Allora quella di Simon è una sperimentazione che riguarda soprattutto la progressiva fusione tra l’atto di osservare intrinseco al cinema e la condivisione della propria esperienza personale. Perché le storie raccontate con il filtro dello sguardo e del dispositivo sono le nostre. Ed è proprio questo movimento di avvicinamento alla realtà che ci permette di “vedere” veramente.