“Vecchia Europa, erano pur belle le adorne sale dei tuoi antichi palazzi, le calme stanze delle tue antiche case borghesi, le rustiche cucine dei tuoi casolari tra i monti, erano pur belli ed eloquenti i tuoi mobili patinati dagli anni, le tue suppellettili amorosamente lavorate da generazioni di stipettai, di vasai, di orefici! Noi che abbiamo conosciuto nel loro splendore tutte queste cose, che abbiamo, sia pure per un giorno, fatta nostra la vita di tante città che ora non sono che macie di squallide pietre, come potremmo dimenticare? Finché ci saranno quattro mura che ancora conservino l’aroma di quell’Europa scomparsa, tra quelle vorremmo morire.”
Le parole che chiudono La filosofia dell’arredamento di Mario Praz, pubblicato quando le macerie della Seconda Guerra Mondiale erano dolorosamente al loro posto, descrivono perfettamente la pulsione che guida gli ultimi due lavori di Davide Rapp, presentati nell’ultima edizione del Filmmaker Festival. Il primo, KURSAAL (2022), si concentra nel documentare la storia e gli spazi del più antico cinema dello Stato del Lussemburgo, attraverso la realtà virtuale. Il secondo, Il corridoio rosso (2023), mette in rilievo il singolare meccanismo di sdoppiamento linguistico e visivo, alla base dell’omonima mostra tenutasi in occasione della 23ª Triennale di Milano: Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries. Entrambi i progetti nascono, quasi per caso, dal bisogno del regista di catturare una realtà hic et nunc – un’esposizione visitata, un cinema incontrato durante una residenza artistica. Questo è possibile privilegiando la rappresentazione filmica dello spazio che ospita questi momenti di vita. Solitamente ciò avviene all’interno di un genere cinematografico, il cosiddetto “documentario sull’arte”, spesso restio alla messa in scena di quello che esula del profilmico; opere in cui si è instaurata la dittatura delle talking heads che hanno fatto progressivamente scomparire tutte quelle immagini di case, stanze, saloni, arredamenti e librerie. Elementi continuamente vilipesi dalla comune pratica della ripresa, prima, e da quella del montaggio, poi. Ma ecco che tutto quello che si trova appeso in ogni spazio potrebbe raccontare meglio, e con maggiore affetto, l’oggetto dell’indagine. Invece, sono proprio le prime vittime dell’oblio della sfocatura e del secondo piano. In contrasto con questa prassi, Rapp riflette sulle conseguenze scatenate dalla sostituzione dello sfondo al primo piano. La verità, pedante, che appartiene alla messa in scena del soggetto-parlante viene abilmente sostituita dal mistero di ogni oggetto-evocante. Lo spettatore diventa, quindi, non più spettatore ma speleologo di immagini.
Lo spostamento dell’attenzione linguistica da personaggio-soggetto a spazio-soggetto ha caratterizzato molto del cinema italiano di ricerca degli ultimi anni. Fra tutti, si pensi alla prima, indimenticabile, sequenza de Il buco (2021) di Michelangelo Frammartino in cui la scalata al Pirellone, permessa dalla tecnologia del boom economico italiano, e la discesa nelle viscere della terra evidenziavano la progressiva perdita d’importanza dell’individuo. Tanto l’atto collettivo – la discesa nella grotta, la morte del mondo contadino – viene potenziato dalla sua quinta scenica naturale, quanto il gesto individuale – scollegato dal contesto spaziale e puramente cittadino – di completare una mappa appare risibile e, insieme, insignificante. Nello stesso anno, Davide Rapp con Montegelato operava sulle medesime basi estetiche all’interno di un processo concettuale appartenente più alla topografia che alla cinefilia. In quest’opera spettacolare in realtà virtuale, l’immagine “reale” delle cascate di Montegelato viene ricostruita attraverso l’assemblaggio di centinaia di film che hanno usato questo luogo come set, con straordinaria costanza, per tutto il secondo Novecento. Questi frammenti solo sedimentandosi uno sull’altro, gesto linguistico ancora una volta collettivo, possono ricostruire il comune spettro del set. Per questo, spezzone dopo spezzone, lo spettatore non si sofferma più su quello che accade nella singola scena – la selezione è veramente variegata, dai film di cappa e spada alle commedie scollacciate reaganiane – ma sarà, inevitabilmente, attirato dai cambiamenti di questo spazio apparentemente (im)mutabile. Il processo si è compiuto ed è irreversibile, il soggetto è scomparso nel suo sfondo. Nessuno presterà più attenzione alle azioni e alle parole di questi personaggi, apolidi, privati della loro storia. Un ritorno alle origini della macchina cinema quindi, quando, nelle prime proiezioni Lumière, molti recensori, più che ad ammirare cosa accadeva narrativamente, si soffermavano sul movimento delle foglie sospinte dal vento, sul volo degli uccellini da un ramo all’altro.
Non bisogna stupirsi se in KURSAAL il proprietario del CineKursaal da soggetto ripreso si trasforma prima in voce narrante e poi in semplice comparsa all’interno di una veduta cittadina, esplorabile liberamente dallo spettatore. La storia di uno spazio, quindi, non può che essere raccontata mediante la stratificazione dei poster cinematografici, dei differenti proiettori, dei materiali di promozione, persino degli arredi sgangherati del bar. Da questi elementi possiamo, finalmente, cogliere la vera essenza di chi ha abitato questi spazi. Il cinema che è stato amato, il pubblico che si è voluto coinvolgere, quante persone mangiano ancora i popcorn in sala… Elementi che si manifestano come un malinconico fantasma, evocato da quelle mura appesantite, da tutti questi ricordi tangibili. Ma questo approccio non può ripetersi uguale ne Il corridoio rosso poiché, in questo caso, gran parte di quello che viene ripreso è un set o, meglio, la riproduzione perfetta di un set.
Il corridoio rosso è un luogo mitico per chiunque studia storia dell’arte a Milano. Non solo perché si trova nella casa di uno dei più importanti e geniali professori di arte moderna in Italia, ma anche poiché tutti coloro che si sono affacciati in questo spazio – colmo di libri, opere d’arte, ricordi di vita, tutto assemblato assieme – ne sono rimasti affascinati. Ne parla in prima persona lo stesso padrone di casa: «Un paio di anni fa, Ersilia era venuta a casa mia […], e, attraversando un corridoio per raggiungere la stanza dove studio, aveva avvertito lì un brivido che le aveva rammentato quelli che si provavano affrontando i misteri dello spazio. […] D’altronde qualcosa del genere l’aveva avvertito, a casa mia, anche Lea Vergine, che aveva cercato persino di metterlo per scritto su un vecchio fascicolo di Abitare. Di altri non ricordo, ma chissà»1. Non stupisce se, dopo questa esperienza quasi iniziatica, in occasione della 23ª Triennale proprio Ersilia Vaudo ha proposto di realizzare, in scala 1:1, una riproduzione del corridoio che avrebbe accolto i visitatori all’inizio del percorso espositivo. Uno spazio deputato ad accentrare i misteri, un acceleratore di particelle di memorie e, quindi, di storie dell’arte. Ecco, nei mesi della mostra milanese esistono due corridoi rossi, perfettamente identici, a seguito di un lavoro millimetrico che ha coinvolto aziende artigianali affiancate dalle nuove possibilità della stampa digitale. L’incontro cinematografico di Rapp con i due corridoi, spazi impossibili eppure esistenti, scatena un glitch all’interno della poetica registica popolata da luoghi tangibili e sempre virtualmente moltiplicabili. Un luogo replicatosi nella realtà che non poteva trovare la sua sintesi impossibile in altro se non nel cinema.
Nonostante il film attui un processo di unificazione dello spazio vero e finto, pulsione dietro alla quale si nascondono tutti i set, i numerosi oggetti che popolano questo luogo aprono, in ogni momento, uno squarcio al di là della macchina da presa. Quel libro, quel quadro, quel finto criceto che storia potranno mai raccontare? Tutto assume le forme del detour allontanandosi sempre di più da una rappresentazione piana della realtà. Un approccio di questo tipo deriva dalla pratica dello studio della storia dell’arte, più libera e ariosa rispetto alla critica cinematografica, inchiodata nella cornice dell’inquadratura. Certo, nel film ci sono i protagonisti che parlano del progetto, della casa, delle storie che ha ospitato, ma, contemporaneamente, Rapp offre continui stimoli visivi. Ecco comparire una vecchia edizione di Conversation Pieces di Mario Praz. Nel volume viene raccontata l’evoluzione della casa borghese finendo per esplorare, nei minimi dettagli, quella dell’autore. Il testo si pone, però, alla base, concettuale e scenografica, di quello che, insieme a La caduta degli dei (1969), è la migliore opera di Luchino Visconti: Gruppo di famiglia in un interno (1974). Ma la storia di questa contaminazione coltissima è contenuta nel volume2 curato proprio dal proprietario di questo corridoio rosso, ormai sdoppiato all’infinito. Ma adesso mi ricordo! Proprio in quel libro si parlava del padre del regista milanese che arredava le sue case mischiando opere d’arte autentiche e fasulle. Siamo partiti da un volume appoggiato su uno scaffale, catturato per un’istante dalla macchina da presa, e ci siamo ritrovato a vagare per almeno tre case diverse, senza contare tutte le stanze!
E alla fine, non importa veramente se quello che Rapp inquadra non sia il corridoio vero ma quello accuratamente finto. Montegelato aveva già dimostrato che la rappresentazione della realtà degli spazi non è poi così importante; lo sono le immagini che questi luoghi contengono e che, in ogni momento, possono frammentare la nostra visione in un caleidoscopio di bivi, incroci e possibilità. All’interno di uno dei momenti finali del mediometraggio viene proiettata, su una delle pareti della casa austera e seriosa dello studioso, una scena di Tu la conosci Claudia? (2004), mentre un’altra parete ospita alcune schegge di The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci e, poi, compare Paisà (1946). Suggestioni aperte. Fantasmi di ferite mai rimarginate, cinema come memento mori. Come avrebbe potuto essere vissuto differentemente questo spazio? In quanti altri modi si può vivere un’esistenza? Quante persone si potevano incontrare e quante strade, potenzialmente tutte percorribili. Non si tratta di un momento cinefilo ma esistenziale, un pensiero ricorrente per tutti coloro che studiano oggi il passato. Allora i frammenti dell’esistenza possono irrompere tra una lezione e l’altra o nel bel mezzo del racconto3 della Camera degli Sposi. Ora senza problemi di continuità spaziotemporale – al diavolo le regole dello storytelling – possiamo sbirciare il vecchio e solo Andrea Mantegna a cui non rimane null’altro da fare se non «partire per ritrovare i ricordi perduti che, come insegna 2046 di Wong Kar Wai, sono “sempre bagnati di lacrime”»4. La stanza 2046, un luogo che esisteva dappertutto e da nessuna parte, come il secondo piano di ogni immagine.
1 Giovanni Agosti, “Dove eravamo” in Il corridoio rosso: 39 racconti, SPBH, Londra, 2022: 9-10.