“La cosa peggiore di quest’epoca è la mancanza di empatia, ed è una questione molto legata al cinema perché le immagini in movimento si basano proprio sulla creazione di sentimenti, che possono essere poi diretti in un senso positivo quanto negativo.”
Paul Schrader, durante la masterclass tenuta al Laceno d’Oro Festival
Vi ricordate il finale di First Reformed? Forse uno dei più fulminanti degli ultimi anni, quanto meno rispetto al cinema americano. I due protagonisti si stringono in un abbraccio disperato, la camera gira vorticosamente intorno a loro, la musica sale, ma poi tutto si interrompe bruscamente, e piomba nel nero. Usciti dalla sala gli spettatori si chiedono a cosa hanno assistito. Come è finito questo film? Bene? Male? Teoricamente il pastore Toller desiste dai suoi intenti “terroristici”, desiste dal bere il detersivo che lo avrebbe avvelenato, distolto da Mary. Eppure, le tre azioni – sostituzione del giubbotto esplosivo, ripensamento sulla morte per avvelenamento e abbraccio finale – durano al massimo cinque minuti e non riescono (non vogliono) entrare emotivamente nello sguardo dello spettatore con i soliti trucchi, rassicurandolo sulla catarsi del protagonista. Cosa è successo? A che razza di happy ending abbiamo assistito?
Cambio film, Il maestro giardiniere, finale. Narvel riesce a salvare Maya spezzando le gambe ai due spacciatori (unica scena di violenza in tutto il film, all’interno di una storia che racconta di un neonazista terrorista coinvolto in traffici di stupefacenti e problematizzato dalla gelosia di una ricca matriarca sudista), a convincere Norma, la padrona del giardino, a sopportare l’unione tra lui e la pronipote e a coronare il suo sogno di redenzione e amore, quasi fiabesco, con quella che altro non è se non una versione post moderna di una principessa Disney.
Depotenziamento, insomma, ma di cosa? Probabilmente del cinema stesso, per lo meno nella sua visione più hollywoodianamente classica. Paul Schrader con le sue opere da regista, ma in un certo senso anche da sceneggiatore (si pensi al sottotesto di un film sottovalutatissimo come Mosquito Coast di Peter Weir), non ha mai deviato dal percorso, ma ha sempre cercato di tracciare un altro sentiero, senza tuttavia rinunciare alla possibilità di concepire il cinema come una catarsi profonda, quasi (e da questo punto di vista probabilmente First Reformed rimane il suo film più “dichiarativo”) religiosa. Senza che l’inganno venga scambiato per empatia. Parliamo qui infatti di una catarsi molto diversa da quella da manuale paradigmatico di sceneggiatura: sì perché Schrader sin da American Gigolò lavora sul paradosso più ambizioso che un autore possa avere, rimanendo uno dei pochi cineasti della storia a riuscirci, insieme al suo maestro Robert Bresson (si vadano a rivedere Un condannato a morte è fuggito e Diario di un curato di campagna), ossia portare i propri personaggi verso un’evoluzione che tuttavia rimane solo aperta a se stessi, e mai verso lo spettatore. In questo senso il cinema di Schrader non è altro che un contenitore chiuso al mondo esterno, qualcosa che rimane all’interno dei propri frame, senza avere la pretesa di portare la dittatura dell’immedesimazione verso una compiutezza quasi propagandistica, come accade spesso in molto cinema americano. In questo senso, il ricongiungimento di Narvel con Maya non ci interessa, non siamo contenti per loro, non importa in quanti prati fioriti li vedremo pascolare. Narvel è un neonazista redento, svuotato da se stesso, neutro, lo tolleriamo, ma non ci piace, anzi paradossalmente l’istinto dello spettatore medio borghese si riaccende solo quando minaccia i due spacciatori (figure anche queste, estremamente caricaturali, depotenziate), quando ci concede qualche sfumatura alla William Munny in Unforgiven, per poi deludere la voglia di un’ascesi drammaturgica verso la violenza con una gambizzazione neanche mostrata. Maya vive per se stessa, e anche quando riesce a ripulirsi dalla droga Schrader nella scrittura le nega qualsiasi momento trionfalistico, la toglie da ogni pietismo. Così, vederla catapultata nella figura della rappresentante delle minoranze afro discendenti di punto in bianco ci lascia, anche qui, molto freddi nei suoi confronti.
A questo punto Paul può ripulire ancora una volta il campo (o il giardino) da tutte le erbacce, può lavorare serenamente su quello che secondo lui è veramente importante: i simboli (“i soggetti sono solo dei pretesti”, diceva Bresson, come ci ricorda giustamente Pietro Masciullo nella sua recensione su Sentieri selvaggi). Così, grazie a questa semina senza compromessi, le scene emotivamente più importanti del film diventano quelle più simboliche, come il connilingus di Narvel a Maya dopo il denudamento che mostra i suoi tatuaggi nazisti, come ad accettare il passato rimosso, senza cancellarlo, ma piegandolo al controllo, addomesticandolo (possibilità inquietante). Dopo tutto, i giardini selvaggi “tendono ad azzerare ogni alterazione artificiale, liberando definitivamente lo sguardo.”
P. S. Durante la masterclass tenuta recentemente ad Avellino Schrader ha dichiarato di essere sempre meno a suo agio nel mostrare la violenza. Non so bene perché, ma mi ha riportato alla mente ancora una volta Unforgiven: – “È una cosa grossa uccidere un uomo. Gli levi tutto quello che ha, e tutto quello che sperava di avere”. – “Sì ma quello se lo meritava”. – “Tutti ce lo meritiamo, Kid”.