Trasformare qualcosa, o qualcuno, in oggetto del desiderio, significa perdere questo qualcosa o qualcuno. L’accesso all’oggetto del desiderio e la perdita dell’oggetto del desiderio sono la stessa cosa. Questo è il centro del cinema di Philippe Garrel.
Il medesimo freudismo che ha postulato questa impasse fornisce poi a Garrel (che non ha mai nascosto le ascendenze freudiane del suo cinema) le due maniere principali di venire a patti con essa: il teatrino dell’Io, e la malinconia. Da un lato, la triade madre-padre-figlio che si prolunga poi ramificandosi in geometrie più complesse, che includono volentieri fratelli, fidanzate illecite etc., e che soprattutto prevedono un notevole grado di interscambiabilità degli elementi che le compongono. Dall’altro, l’attaccamento feticista al fantasma dell’oggetto perduto, che freudianamente si oppone all’elaborazione del lutto. Lungo i quasi sessant’anni di un’attività iniziata da giovanissimo, Garrel ha dunque fatto variamente sfumare l’uno nell’altra la tessitura di relazioni personali e parentali di assai frequente derivazione autobiografica, non senza continui rimescolamenti (lui che fa un film sul padre, il figlio Louis che impersona Philippe, un’amante che interpreta una ex e così via), e un’ineguagliabile attenzione fotografica alla vita dell’inorganico, ai bagliori fotogenici che si sprigionano da corpi, ambienti e soprattutto volti, dopo il loro mortale imprigionamento nella pellicola e conseguente trasformazione in vivissimi fantasmi, quasi sempre in bianco e nero.
Portando Freud alle sue estreme conseguenze, Garrel esaurisce l’interiorità nella superficie di corpi e volti; la contemplazione cinematografica delle loro superfici diventa il modo in cui l’accesso all’oggetto del desiderio e la sua perdita diventano tutt’uno. Il che vale tanto per le opere precedenti quanto per quelle seguenti la soglia filmografica, databile grosso modo con gli Ottanta, in cui il cinema di Garrel è passato dall’essere “sperimentale” all’essere più o meno “normale” – o meglio: a usare forme più o meno narrative per fare i conti con la radicalità del suo cinema giovanile (specchio della diffusa radicalità politica di quegli anni: ormai celebre è il suo Les amants réguliers (2005), complesso e personalissimo pamphlet sull’eredità del ‘68) diventata essa stessa oggetto perduto. Les hautes solitudes (1974) è una semplice collezione di primi piani prolungati, le cui straordinarie alchimie fotografiche tra luce (al solito, in bianco e nero) e volti vengono offerti alla contemplazione. Uno di questi volti è quello di Jean Seberg, il cui infelicissimo destino sarà oggetto, nel 2008, di La frontière de l’aube, uno dei tanti film in cui un regista (qui, un fotografo) perde un oggetto amato e, nel tentativo di riportarlo in vita, lo ri-perde e si ri-perde. Fu così anche in Sauvage innocence (2001), storia modellata su quello che è l’oggetto perduto per eccellenza del cinema e della vita di Philippe Garrel (la cantante Nico, con cui ebbe una relazione sentimentale e professionale anni prima). Nel 1985 (Elle a passé tant d’heures sous les sunlights), il regista francese mette in scena se stesso in piena transizione tra un periodo e l’altro: trapela, nel puzzle di frammenti che, insieme, danno qualche misura dell’intersecarsi modernista di vari livelli narrativi (il film, il film-nel-film, il documentario più o meno autentico sulle riprese del film etc.), la sua volontà di reagire alla rottura del rapporto con Nico (che morirà poco tempo dopo) facendo un film “normale”. Anche perché nel frattempo è nato il figlio Louis: non più figlio, Philippe si scopre padre e guarda al proprio padre (Maurice) in modo diverso.
Les baisers de secours (1989) è forse il suo primo film davvero “normale”, anche se al solito triangolo madre-padre-figlio si sovrappone non l’ordinario madre-padre-amante, bensì madre-padre-cinema. Ma questi due triangoli non si erano già incrociati, pur in modo diverso, in Le révélateur (1968), trip onirico-edipico in cui, attraverso una strepitosa luce bianco-nera, comincia a farsi strada un mito religioso importantissimo per Garrel, quello mariano della donna che mette al mondo una vita che sconfigge la morte?
Insomma: sarebbe fuorviante vedere, nella sua filmografia, la svolta degli anni Ottanta come una vera discontinuità. Nei primi anni sperimentali, le visioni dell’inconscio erano la materia grezza di un rituale da officiare tracciando linee esoteriche (La cicatrice intérieure, 1972) con luci, scenografie e montaggio; come tutti i rituali, lo scopo era quello di attingere al tempo “pieno” della celebrazione del Mistero (quello della precarietà di ogni nostra posizione nelle relazioni interpersonali, destinate a interscambiarsi secondo un disegno che dal nostro limitato punto di vista può solo risultare occulto). La successiva fase narrativa, con la sua rarefatta prosaicità, ne è il preciso controcampo: il tempo “vuoto” che ci vede tangibilmente alienati da quel Mistero. Ma quest’ultimo continua a esserci, a farsi palpabile nella vita della luce scolpita sulla pellicola, nella stagnazione orizzontale in cui sembrano galleggiare schegge narrative anche considerevolmente irrelate tra loro, e che non di rado cozzano tra loro al montaggio come i bianchi-neri, anche molto diversi, delle singole inquadrature. Dentro quelle schegge, sullo sfondo della nudità degli ambienti, dei sentimenti (presentati il più delle volte in forma grezza, senza sviluppo graduale o edulcorazione, lasciando chi li enuncia in uno stato di evidente vulnerabilità) e dei pattern compositivi, il presente è occasione non tanto di concatenazione narrativa, quanto di astratto spaesamento da cui farsi ipnotizzare, guardandolo fisso con poche inquadrature spesso fisse, per rendersi sensibili, insieme alla cinepresa, verso la sovrabbondanza di stimoli sensoriali che non può non assediare il nostro sguardo: quanti gesti impercettibili nota la cinepresa, quanti sintomi rivela la superficie dei corpi e dei volti anche quando nulla sembra accadere…
Il che è vero non solo nelle opere sceneggiate (anche) da Marc Cholodenko, con la loro scrittura ellittica e frammentata, ma anche in quelle più recenti, in cui Garrel, forse a mo’ di reazione all’avvento del digitale (lui così strenuamente pellicolare), sceglie di rendere più psicanaliticamente spigolosa la sua scrittura affidandosi a uno sceneggiatore preclaro come Jean-Claude Carrière. Da decenni ormai, il cinema di Garrel guarda dietro di sé, a un oggetto perduto e a un cinema perduto, per ri-perderli e per sondare la vita inorganica (la vita del fantasma) che si sprigiona dalla sua ri-perdita. Il suo ultimo Le grand chariot (2023) ritorna a uno dei film-cerniera tra i due periodi, Liberté la nuit (1983), dedicato al vecchio mestiere del padre Maurice (burattinaio), intorno a cui ruotava anche il resto della sua famiglia. Resi meno immediatamente evidenti (ma tutt’altro che aboliti) i sottotesti politici del film precedente, legati al fronte di liberazione algerino, Le grand chariot è il film in cui Philippe allude alla propria morte, fa recitare i tre figli e si figura nel presente la disseminazione della sua eredità post-mortem a venire. Ogni residuo di morbosità legata all’attaccamento malinconico all’oggetto perduto è definitivamente superata; il colore sostituisce il bianco-e-nero, e la vita dell’inorganico è ora pura giubilazione coreografica renoiriana, “spalmata” sulla gestione registica della coralità famigliare.