C’è chi nasce con un dono, o meglio chi ci nasceva quando ancora si credeva collettivamente in certe cose. Sono solo dicerie di paese, storie tramandate di bocca in bocca, deliri di uno sciocco o di un santo a cui fare fede almeno per l’arco di un racconto. Riposano su altre narrazioni, quelle che gettano le radici di una cultura contadina, quelle che affiorano in un segno della croce scaramantico o in un profilo deciso e misterioso dipinto prima che tutto avesse luogo, ma soprattutto quelle che fanno levare lo sguardo per il volo degli uccelli e il loro posarsi sui dorsi delle pecore. Sono queste le premesse dell’ultimo film di Alice Rohrwacher, La chimera, presentato in Concorso al Festival di Cannes e ora (finalmente) in sala, che risponde spalancando le molteplici possibilità del cinema in un anno che ha visto trionfare tante semplificazioni (più o meno riuscite) e un ritorno alla “classicità” per il cinema d’autore internazionale (con il film giudiziario e il dramma da camera).
La prima cosa a colpire è la ricchezza di un film che non si accontenta di raccontare la storia di Arthur (un tenero e tenebroso Josh O’Connor), archeologo inglese giunto in Tuscia per amore e finito per diventare il leader di un’irridente banda di tombaroli, ma fin dalle prime immagini la colloca in una dimensione mitica, in cui il centro propulsore diventa la dimensione di limine tra sopra e sotto, tra il regno dei vivi e quello dei morti, tra azione e memoria, segnata dai fluidi movimenti di mdp che fanno perdere la connotazione spaziale. La materia della terra, da sempre centrale nei film contadini di Rohrwacher ma mai trasformata in “altro” come succede qui, diventa lo strato che cela e dischiude il possibile ingresso in un mondo proibito, in un ritorno alle viscere, al ventre materno da cui spuntano fiori come tracce, da cui uscire con i tesori del mondo o in cui ritornare per sempre. Le luci delle candele, la rivelazione di un tempio che celebra l’armonia tra donna e natura, le ombre che si allungano e un filo rosso che ritorna più volte ricollocano la narrazione al mito di Euridice e Orfeo, incastonando un amore perduto di gioventù nell’ossessione della ricerca, nell’aspirazione all’infinito, nel perpetuo moto che contraddistingue Arthur come eroe novecentesco: un uomo che alla sua tensione inesauribile (di dolore, di ricerca, di completezza) non saprà mai dare un compimento se non nel gesto ultimo.
Ma non c’è solo lui in questo film, che ancora più di Lazzaro felice si spalanca a una comunità: quello che resta dentro dopo la visione è il sentimento di autenticità che affiora dal suo essere intriso di detti popolari, di facce poco note, di paesaggi inconsueti. Autentici non sono solo i ritrovamenti della banda di tombaroli, autentico è anche lo sguardo dell’autrice che non ha timore di confrontarsi con i mezzi artificiali della finzione per far affiorare, in maniera traslata ma potente, l’energia poderosa dell’amore. Ed è questa la novità de La chimera (già sperimentata nel piccolo gioiello che è il corto Le pupille): saper mescolare con abilità il linguaggio del realismo a quello della fiaba, senza aver paura di utilizzare le accelerazioni per i momenti più comici, le marcate caratterizzazioni di costumi e scenografie per quelli più fiabeschi (la villa della Signora Isabella Rossellini e delle sue tante figlie), un cantastorie che allarga e richiude questa storia che ha un protagonista ma in realtà riguarda una comunità. E qui si gioca uno scarto notevole: in un film che non racconta più il passaggio del mondo contadino, ma lo lascia come fondale, per far emergere altre storie come quella della straniera Italia (interpretata con grazia selvatica da Carol Duarte) che offre ad Arthur le chiavi di un linguaggio con cui poter accedere a una nuova dimensione da cui è attratto ma senza ancora gli strumenti necessari per accedervi. La piccola comunità di donne e bambini che occupano un luogo di tutti e ormai più di nessuno (lo Stato italiano?) è la più bella utopia di quest’anno cinematografico. Perché loro, come gli uccelli e le pecore, hanno imparato l’importanza dei piccoli gesti, come togliersi i pidocchi e cucinarsi una buona cena.
Al suo quarto lungometraggio di finzione (in un percorso tutto in crescendo), Alice Rohrwacher si avvia a essere il più luminoso talento del cinema italiano, rielaborando le reali tensioni che attraversano la società contemporanea per riconnetterle con il nostro passato, attuando un ribaltamento di prospettive tra centro e periferia, sacro e profano, ma soprattutto riconnettendoci con quello sguardo primigenio che è da sempre la forza trasformatrice del cinema.