Prima di qualsiasi altra immagine, un impercettibile fotogramma monocromo di colore rosso apre Il cielo brucia. Il puro colore non dura che un secondo e il pensiero non ne coglie il senso. Un’astrazione? Un’utile transizione visiva? Tutt’altro, piuttosto qualcosa di materico e comune, qualcosa che si vede tutti i giorni quando ci si sveglia. Per la scienza una percezione intraoculare, un fenomeno entoptico, un fosfeno. Nel linguaggio comune, quello che si vede quando si dischiude piano piano le palpebre, con la luce che filtra e la realtà che prende piano piano forma. Insomma, un impulso sensoriale al bordo delle immagini, già da sempre noto all’occhio di chiunque. Ecco, infatti, che mentre il profilo degli alberi inizia a comparire sullo sfondo cremisi anche il pensiero comprende ciò che la memoria dell’occhio aveva già intuito: qualcuno sta iniziando a vedere. È Leon, che socchiudendo gli occhi guarda fuori dalla macchina in cui viaggia, mentre il vetro del finestrino si frappone tra la foresta e il suo sguardo. Anche se “qualcosa non va” nell’auto, come lo avverte il suo amico Felix, lui “non sente nulla”: lo schermo che media il suo sguardo verso il mondo esterno lo protegge come uno scudo e lo isola da ogni contatto con il reale. È uno scrittore, ma non sembra comunque interessato a dove si trova, il mondo esterno per lui non è che un setting qualunque, lo sfondo di un racconto mentale, il pretesto per rivendicare uno stile. E non potrebbe essere diversamente, convinto com’è che lo stile proprio non possa prescindere dal sé, dalla scelta di una lente personale e dalla messa in mostra di questa lente.
Di più, il mondo per Leon non solo non è interessante, ma non è neanche davvero qualcosa che si può conoscere così, naturalmente. “Se ritrai le persone mentre guardano il mare mettendoti di fronte a loro, guarderanno te e non il mare. Terrai una fotocamera di fronte a loro. Sanno che hai una telecamera e quindi non guarderanno più il mare. Poseranno per una foto” spiega a Felix, che non riesce a convincere il testardo amico del senso della propria proposta alternativa: immaginare che si possa entrare in contatto diretto con la realtà, che uno sguardo possa toccare il mondo senza la mediazione di uno schermo, senza filtri e pose, che il realismo sia, in poche parole, una possibilità. Per Leon, convinto postmodernista, tutto riflessività e rimediazione, questa non è che un’ingenuità: come è possibile raccontare il reale prescindendo dalle immagini? Lui ne sa di più, al massimo sono gli altri che non capiscono. E tuttavia, niente sembra funzionare: il secondo romanzo che sta scrivendo lo preoccupa, non quadra, tutto appare ostile e mentre l’attesa per l’insoddisfatto editore si fa estenuante il suo corpo mal si accorda con la natura. È forse colpa di Nadja, ospite inatteso nella casa dove doveva trovare comodo ufficio e che invece diviene spazio di pulsioni altrui e desideri repressi? O anche lui sa che in fondo la sua scrittura è chiusa in un’eco ombelicale e che il suo presunto stile raffinato non è che una fragile protezione per tenere a distanza la paura per il reale?
Di certo è facile leggere Il cielo brucia come un piccolo racconto generazionale sull’angosciosa relazione di un giovane con l’altro, il mondo, l’ecologia. Ma è possibile trovare qualcosa di più tra le righe di queste domande. È possibile, per esempio, riconoscere in Leon il fantasma del Petzold che fu, quello che al suo secondo film per la televisione (il cui titolo, Cuba Libre, condivide con quello del manoscritto del protagonista, “Club Sandwich”, un’assonanza forse inconscia ma indicativa) raccontava con acrobazia postmoderna la solitudine degli amori al tempo del neoliberismo, rifacendo il Detour di Edgar Ulmer lungo le autostrade tedesche. Ed è possibile riconoscere nel racconto della crisi del soggetto un’urgenza personale di Petzold, la proposta di un nuovo movimento riflessivo nel proprio cinema, a nove anni dalla morte del maestro consigliere teorico Harun Farocki: fuori dal contesto urbano, dalle geometrie oppressive della città, dalla logica culturale della sorveglianza, sí, ma anche fuori dal reticolo di riferimenti autoriali, dalla ripetizione delle stesse immagini, dalle ratificate sicurezze. Fuori di sé in un certo senso. E davanti alla domanda di un altro. Quella di Roberto Rossellini: come è possibile guardare di nuovo qualcosa come se fosse la prima volta, senza la mediazione di immagini preesistenti, senza cliché, senza lo schermo del cinema, senza la modernità in mezzo? Come è possibile, in altre parole, essere realisti?
Come segnalato già da molti, la fine di Il cielo brucia doppia quella di Viaggio in Italia e sembra dare al problema la stessa risposta del regista italiano: il realismo non è che un provvisorio e artificioso spazio cavo e la sua immagine il calco del tempo che rimane incagliato nel passaggio attraverso questo spazio. Non è però solo il finale a combaciare, anche l’inizio del film corrisponde: Viaggio in Italia, storia della crisi di una (condivisa) soggettività inceppata che incontra il punto limite della propria visione, si apre infatti con il tragitto in macchina su un viale alberato di un uomo che sul sedile passeggero si sveglia e apre gli occhi. Qualcosa però cambia nella scena di Petzold. Le configurazioni di genere – la crisi della figura maschile è ben diversa -, ma soprattutto le urgenze sociopolitiche. Perché se Rossellini portava lo stile del nuovo romanzo americano – il frontale realismo dell’immediatezza – a un’ambiguità umanista molto maggiore per rivendicare sul campo dell’arte un’indipendenza identitaria dalle ingerenze statunitensi del dopo guerra, a Petzold invece interessa risolvere l’ormai anestetizzato postmodernismo tedesco; quella prigione cognitiva che lui stesso ha chiamato retro-loop: un circuito chiuso, costruito da sguardi che a furia di rimediare la realtà attraverso una continua interposizione di immagini già esistenti si sono isolati talmente tanto dalla essa da neanche essere in grado di sentirla. In Undine questo circuito era la città di Berlino, composta di palazzi nuovi ma travestiti da vecchi, e ne Il cielo brucia è lo stile di Leon, ma in entrambi i casi la soluzione è la stessa: usare lo stile americano – già ormai inoculato nell’immaginario globale, e in un certo senso inscindibile da esso – per risvegliare il mito romantico tedesco.
Unica soluzione per uno sguardo politicamente sospeso nel vuoto dell’assenza di una costruzione sociale collettiva – in Germania non ci sono state rivoluzioni storiche – e costretto a girare su se stesso seguendo il nastro continuo di immagini riciclate (dolose, come Petzold ha mostrato nella trilogia storica, di grande dimenticanza) -, il romanticismo è infatti collante sociale e via d’uscita dall’anestetizzazione senza memoria dello stile. Ma lo è per Petzold in un senso non reazionario e ideologico, alla maniera di un’altra idea ripetuta e meramente stilizzata, solo nel momento in cui è realista, e cioè incarnato nella percezione. Per questo la ninfa in Undine – primo capitolo di una nuova trilogia sulla tradizione romantica elementale – è rappresentata come una donna in carne e ossa, che desidera, e per questo Il cielo brucia si apre su una soggettività non più virtuale, come nel neorealismo rosselliniano, ma percettiva, biologica quasi: la palpebra semi-aperta di Leon che guarda gli alberi. Questa intensità pellicolare, questo realismo esteso alla dimensione epiteliale, è per Petzold il meglio di quanto la sintassi cinematografica americana abbia mai offerto, e in particolare corrisponde l’eredità del regista che prima di ogni altro, prima anche del neorealismo, aveva iniziato a fare slittare (dice bene Deleuze) la messa in scena da un realismo dell’azione a un realismo della pura sensazione soggettiva: Alfred Hitchcock – lo aveva capito Roberto Calasso, che in Allucinazioni americane analizzava i ricami drammaturgici con cui Vertigo ristrutturava lo spettatore suturando i fosfeni, e cioè le situazioni ottiche pure, dentro all’azione classica.
Il regista tedesco sembra pensare che iniettando negli spazi cavi del realismo già raggiunto da Rossellini l’intensità sensoriale americana di Hitchcock, abbagliante ma sostenibile, l’immagine raggiunga un peso, un realismo, attraverso cui è possibile non solo guardare il mondo di nuovo ma anche sentirlo come se si fosse appena nati, in uno shock. Perché, che sia la frizione per il contatto con l’aria, la pressione della gravità sulla pelle, lo sguardo fugace di una donna che riscrive le coordinate, il peso della fiamma mentre guizza sulla retina, il sapore della cenere che si scioglie sul palato, è proprio intorno a questo shock sensoriale che la società può nascere di nuovo come collettivo. In tal senso Petzold sceglie, come ultima misura formale, la commedia di Rohmer e filma con tono leggero un gruppo di giovani che passano due settimane estive a bordo della morte: la levità del francese non è solo l’esca perfetta per alcuni spettatori specifici (“Volevo fare una commedia estiva, in Germania non si fanno mai”) la cui esperienza è più o meno consapevolmente danneggiata, ma è anche e soprattutto il modo per intendere in senso lato l’immagine come lo strumento morale più adatto per socializzare i traumi dello sguardo e così superarli. Andando non per forza in avanti, ma sapientemente all’indietro, fino a liberare il romanticismo da ogni rivendicazione reazionaria. Fino a giungere cioè ad Heinrich Heine.
Il linguaggio del poeta tedesco funziona come perno ideale della triangolazione tra il realismo ontologico-oggettivo di Rossellini, il realismo psicologico-soggettivo di Hitchcock e il realismo sociale-collettivo di Rohmer: teso tra l’obiettività, l’urgenza dell’attimo e il progetto dell’ironia dei costumi, il suo stile trova il sentimento romantico ripulendo l’espressione del sentimentalismo regressivo. Nella poesia di Heine il soggetto c’è, ma c’è anche il mondo. C’è l’immagine, ma anche la realtà. Lo sguardo che attraversa il suo linguaggio trova un’esperienza premoderna ma non regressiva (come è invece in un certo senso il realismo opposto al realismo romantico, ovvero il realismo magico mascherato da cinismo di Lanthimos), trova cioè un nuovo modo di guardare le cose oltre il circuito chiuso, come se si fosse appena nati, come la prima volta. Se ne accorge anche Leon, proprio quando sente Nadja recitare Heine – di cui lei sta studiando il “terremoto della rappresentazione”. Da quel momento, tutto cambia per lui. Ma proprio quando tutto cambia il mondo rimuove senza attesa le distanze e la vicinanza improvvisa si trasforma in una fitta tra le costole, in una sirena che strapiomba dal cielo, in uno strato di carbone che assomiglia a due mani. A contatto con la fine, lo stile non è più l’immagine mentale di un occhio chiuso ma la luce trattenuta dalla palpebra mentre si apre per accogliere finalmente il mare. Il realismo non più solo una possibilità, ma un dovere, una responsabilità. E il reale, il reale non uno schermo, ma al massimo una lacrima.