Jill, Uncredited
Anthony Ing segue un profilo sfuggente sugli sfondi di vecchi film, un profilo femminile che nel giro di poche scene impariamo a riconoscere e identificare fra tanti: Jill Goldston, attrice di sfondo presente in un’enorme quantità di produzioni cinematografiche e televisive britanniche. Spesso si tratta di un semplice passaggio nell’inquadratura, facendosi strada fra Diane Keaton e Rudolph Nureyev, Vincent Price e Kate Bush. A volte la performance attoriale è leggermente più strutturata: in quei casi, nel ralenti e nei forti ingrandimenti i suoi gesti di pochi secondi acquisiscono una forza monumentale. Ad uno dei possibili livelli di lettura, la raccolta di frammenti va a costituire una breve ma densa metanarrazione, una sorta di Orlando che, come il personaggio di Virginia Woolf, attraversa epoche storiche in un costante stato di transito. Ad un livello ulteriore, la sua presenza rompe il meccanismo d’incanto e di finzione, riportandoci all’esistenza di condizioni materiali nel lavoro cinematografico, come quello delle comparse: in questo senso indicativo anche la forte presenza di lavori di cura, come infermiere e cameriere, fra i molti ruoli impersonati dall’attrice. Allo sconfinamento fra le varie dimensioni contribuisce anche il passaggio fra immagini propriamente cinematografiche e alcune riprese in cui il video televisivo a colori anni Settanta, nella sua fotografia slavata, dà la sensazione di non essere di fronte a immagini finzionali ma “reali”: come forse anche tutte le altre.

Navigators
Il film di Noah Teichner propone un esempio di scavo “verticale” nell’archivio per affrontare, in maniera saggistica, uno specifico caso storico: la deportazione da parte del governo degli Stati Uniti di un gran numero di anarchici e appartenenti a movimenti radicali di origine russa, arrestati e “restituiti” alla Russia post rivoluzionaria nel 1919. Fra loro i più famosi sono Emma Goldman e Alexander Berkman, dai cui testi relativi a quella navigazione viene estratta buona parte della narrazione. Per una strana ironia della storia, la stessa nave fu usata pochi anni dopo come set per un film di Buster Keaton, The Navigator: ed è da quel film che Teichner prende gran parte del materiale visivo della sua opera. Keaton e la sua controparte Kathryn McGuire si aggirano per la nave, offrendo un’incarnazione surreale ai racconti di Berkman e Goldman: in questo modo le linee temporali ed esistenziali collassano fra loro, ma il risultato non è un insieme disordinato, immagini e parole sembrano acquisire senso, fra la slapstick venata di malinconia e il destino dell’avventura anarchica affiorano corrispondenze. Nello split screen attraverso cui è strutturato tutto il film le loro immagini si alternano ed affiancano ai documenti, che leggiamo sia trascritti in didascalie che nella loro materialità di oggetti d’archivio. Il film si chiude coi funerali del geografo anarchico Kropotkin, che insieme alla rivolta di Kronstadt sarà l’ultimo atto della permanenza sovietica di Berkman e Goldman prima della partenza per un nuovo esilio.

A History of the World According to Getty Images
In A History of the World According to Getty Images, Richard Misek propone una riflessione sulla trasmissione della storia attraverso le immagini e sull’incidenza in questo processo delle dinamiche di profitto privato. La prima metà del film mette in rapida sequenza una serie di riprese “iconiche”, fra quelle che vanno a costituire il canone per la rappresentazione visuale della “storia” del XX secolo: tutte dominate dalla filigrana di Getty Images, dal cui sito sono state estratte come immagini di anteprima. Ma, ci ricorda Misek, ogni immagine, oltre a raccontare una storia, ha anche una sua storia. Il film procede infatti concentrandosi su alcune di esse, procedendo in un’analisi del concetto di “dominio pubblico”, che, l’autore ci spiega, non coincide con l’effettiva libertà di fruizione ed utilizzo di un documento: alcune delle riprese commentate nel film hanno infatti perso i diritti d’autore, o non li hanno mai avuti (per esempio le immagini prodotte da enti pubblici), ma sono accessibili al pubblico solo attraverso il servizio a pagamento di un archivio privato, come appunto Getty Images. Misek non si limita a una diagnosi della questione, ma propone e mette in atto una tecnica di riappropriazione nei confronti di queste immagini: alcune delle sequenze commentate (come la ripresa in alta definizione dell’incendio del dirigibile Hindenburg), sono state ottenute pagando Getty, ma una volta reinserite in questo film, distribuito in Creative Commons, risultano così “liberate” e restituite ad una fruizione e possibilità di (ri)utilizzo critico e autonomo da parte di chi lo desideri, soprattutto quando si parla di documenti visuali relativi a soggetti colonizzati e razzializzati. Il pagamento di un vero e proprio riscatto, per liberare le immagini dalla condizione di merce e renderle patrimonio autenticamente pubblico.