Dove vanno tutti i nostri racconti, le nostre memorie? Invelle, da nessuna parte importante, in un non-luogo della Storia, uno spazio di transizione per memorie a rischio di estinzione, se non vengono più raccontate, se non c’è più qualcuno che possa raccontarle. Le memorie dei nonni sono questo tipo di racconti, divagazioni a partire dalla propria prospettiva personale che inevitabilmente incontrano e si scontrano con la Storia ufficiale. Divagazioni che sopravvivono a fatica, che l’ascoltatore assimila sul fondo di un buco nero di dimenticanza. Ma è solo a partire da questo fondo di nero che si genera la memoria, l’immaginazione, l’animazione.
Invelle è una parola del dialetto marchigiano, anch’essa lingua in progressiva erosione minacciata dall’avvento di una lingua unificata, massificata. Lingua della propria terra da cui ci si è distaccati, sradicati. Qui non c’è nessuna nostalgia per uno spazio originario da cui ci si è separati, solo la constatazione di una perdita che è prima di tutto immaginativa e in secondo luogo politica. Immaginativa in quanto provenendo da una condizione materiale permetteva una trasfigurazione. Politica perché è solo attraverso una trasfigurazione della propria condizione materiale che si può osare contestare la Storia. Il dialetto è il segno dell’insorgere di un passato.
Non è la memoria a dover passare sotto la lente della Storia bensì la Storia a passare sotto la lente di tre generazioni di sguardi infantili. Lo sguardo infantile, come il racconto memoriale, si poggia su un abisso di dimenticanza, venendo al tempo stesso schiacciato sotto il peso gravoso della Storia nel suo prodursi: Zelanda dalla Prima Guerra Mondiale; Assunta dalla Seconda Guerra Mondiale; Icaro dagli Anni di Piombo. Uno sguardo dominato dalle emozioni, dal terrore quotidiano, dalla perdita degli affetti, dal trauma della separazione. La violenza sta tutto fuori campo ma la si sente attraverso il sonoro, attraverso l’identificazione percettiva con lo sguardo infantile. Uno sguardo allucinato dalla propria vita interiore, onirica, con cui poter continuare a divagare, sognare, desiderare, nel mezzo di una tragedia.
Uno sguardo dall’alto sulle macerie della Storia. Vola Icaro oltre il labirinto di Cnosso, vagando sui labirinti memoriali. Il mito si fa lingua perché è nel mito che la lingua ritrova il suo radicamento nella terra, la possibilità di una trasformazione, di una divagazione. È grazie all’animazione, dal nero da cui proviene, che si può trasfigurare una lingua, una realtà, visualizzare tutte le memorie in via di estinzione, tutte le sensazioni provate, paure e sogni di un attimo che rischiano di essere escluse dalla Storia. Forse il cinema dal vivo non è abbastanza adatto a questo compito, a trattenere quel fondo nero di dimenticanza da cui la memoria si genera e insorge.
Dal nero Simone Massi con il suo solito stile consolidato in quasi trent’anni di carriera crea varchi spazio-temporali, associazioni impreviste, inciampi della Storia, una rete di incontri improvvisi tra le diverse memorie. Ogni figura si trasla in un’altra attraversando buchi neri che inghiottono la memoria per rigenerarla. Ogni memoria si consegna allo sconfinamento, all’erranza, alla divagazione, alla resistenza rispetto alla Storia. A cosa serve questa resistenza, dove va? Invelle. La memoria è condannata a morte, ma proprio per questo resiste e insorge.