L’immagine permanente è quella della Vergine del Carmelo, santa patrona dell’Andalusia, su carta fluorescente, unica fonte di intrattenimento per la popolazione femminile di un piccolo villaggio dell’Andalusia nella Spagna franchista degli anni 70. Comincia proprio con questo spunto il lungometraggio di Laura Ferrès, un’impietosa quanto veritiera fotografia dello stato iberico sotto dittatura: una nazione chiusa in se stessa, dentro un oscurantismo cattolico che non lascia scampo a nessuna libertà. Idealmente allora camminiamo indietro non solo di mezzo secolo, ma addirittura di mezzo millennio. In questo piccolo angolo di mondo sembra infatti di essere catapultati in un eterno Medioevo, dove effettivamente le uniche storie da cui attingere per scappare dalla realtà erano gli affreschi all’interno delle chiese, in cui gli eroi e le eroine erano i santi, le sante, i martiri, le martiri. Tutto ammantato dall’inquietante grazia di Dio. È con questa realtà che Antonia deve fare i conti da ragazzina, ed è forse proprio per questo motivo che scomparirà nel cuore della notte, lasciando dietro di sé il suo bambino. E non tornerà mai più.
Cinquant’anni dopo, Antonia ora vive nella Catalogna progressista e cosmopolita. Solo due abitanti su dieci si descrivono come conservatori, rivela il film. Lei è una commerciante di profumi che va di porta in porta con la sua valigetta a ruote in cerca di clienti. Un giorno, tenta di vendere i suoi prodotti all’interno di un’agenzia pubblicitaria, la sua immagine viene inavvertitamente catturata dalle telecamere a circuito chiuso interne dell’azienda. I pubblicisti decidono che questa donna misteriosa incarna perfettamente l’autenticità che stanno cercando e mandano la loro direttrice del casting, Carmen, in missione per localizzare Antonia. Sarà da qui in poi che le due donne si legheranno progressivamente, all’interno delle loro rispettive solitudini.
Dall’immagine del dipinto a quella della camera di sorveglianza, la permanenza è sempre prerogativa della prigionia, una prigionia che verrà indagata solo inizialmente da Carmen, che presto si rivelerà come un’altra delle sue numerose vittime.
The permanent picture sviluppa il suo intero arco drammaturgico all’interno di un’analisi che racconta come anche il passare dei decenni non riesca a permettere agli essere umani di uscire dalla gabbia che una società da prima oscurantista e dopo performativa e alienante costruisce intorno a ognuno di noi. La permanenza può essere il patriarcato, la permanenza può essere il capitalismo, ma la permanenza infine, quando il film si apre verso la sua conclusione, non fa altro che rivelarsi come il solito, vecchio potere che si maschera e si adegua all’incedere delle epoche, per insinuarsi, invisibile ma implacabile, nelle vite di tutti.
Ma allora l’immagine in tutto questo che ruolo assume? Quello di carceriera? Quello di liberatrice? Come sempre, dipende dal modo in cui la usiamo.