Rosinha canta, ed è solo nella musica che ritrova la sua essenza, è solo attraverso la musica che riesce a sfuggire all’alienazione di se stessa come migrante. Le canzoni in Manga d’Terra scoppiano dentro a momenti semi-diegetici, che se in un certo senso aiutano Rosinha a scappare dalla realtà, dall’altro rimarcano il suo essere avvertita come elemento estraneo, da quando da Capo Verde ha lasciato i suoi due figli piccoli alle cure della madre per trasferirsi a Lisbona. Lavora come assistente in un ristorante precario nei bassifondi suburbani, dove vendono la cachupa, piatto nazionale di Capo Verde. Le giornate trascorrono, e Rosinha canta, canta mentre scappa dalle violenze della polizia portoghese, canta dal ghetto dove vive, segregata dal resto della società portoghese, canta la morna, un genere musicale strettamente associato alla sua terra.
L’isolamento socioculturale della protagonista diventa spunto paradossale per dei flash da musical, elevando così il tragico verso il lirico, seguendo la lezione di Pedro Costa e prima ancora di Glauber Rocha. Personaggio quasi speculare rispetto a Firmino di Barravento, Rosinha si confronta in continuazione con ogni sfumatura del tessuto sociale della periferia portoghese, dal maschilismo predatorio alla gelosia femminile, essa stessa epigono di una società arcaico-patriarcale in cui la donna è spinta continuamente a essere sensuale, apertamente sessuale e a “combattere” per i propri cari.
Dal luogo comune parte anche un’indagine sui corpi, sul valore politico della sensualità e su quanto la bellezza femminile sia strumento derivante esclusivamente dal desiderio maschile. Ma gli uomini in Manga d’Terra non sono demiurghi malefici coscienti del potere che esercitano, perché il regista Basil da Cunha decide di caratterizzarli quasi come burattini mossi da qualcos’altro, da una società classista che usa la povertà come strumento che scarnifica se stesso dall’interno, non lasciando spazio per nessuna coscienza di classe, tant’è che la Lisbona “bianca” rimane lontana, quasi in un altro mondo, a distanza di sicurezza dai suoi rimossi.
Ma al di là di tutto, Manga d’Terra funziona straordinariamente bene soprattutto come inno alla cultura capoverdiana e alla sua diaspora. Il regista ha spiegato: “Ho voluto rendere omaggio alle donne del quartiere di Reboleira, attraverso un musical che rivisita i suoni cosmici di Capo Verde”. Un’operazione delicatissima, in cui l’appropriazione culturale resta sempre dietro l’angolo, ma da Cunha attraverso un accompagnamento empatico costante riesce a mischiarsi con i suoi personaggi, non idealizzando nulla e usando l’estetizzazione come metafora del dolore traslato, di quella saudade che è giusto mettere in scena, usando il particolare per raccontare un universale che appartiene a ogni cultura, a ognuno di noi.