La filmografia di Radu Jude potrebbe essere comparata, per estensione e stratificazione discorsiva, a un atlante warburghiano sul cinema e la contemporaneità occidentali, rumena in particolare. Un atlante di critica radicale che, a partire da I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians fino a Bad Luck Banging or Loony Porn (ma si potrebbero citare pure i film-saggio fotografici sulla shoah rumena The Dead Nation e The Exit of the Trains, o cortometraggi come The Potemkinist) analizza il reale politico e culturale con sguardo post-moderno, dove cinema, fotografia, sociologia, economia e storia si incontrano per creare oggetti filmici frammentari (dove nel frammento si vede il tutto), dialettici e situati storicamente. Do Not Expect Too Much from the End of the World, presentato in concorso internazionale al 76esimo Locarno Film Festival, aggiunge con estrema lucidità un’altra pagina a questo atlante cinematografico totalizzante di un regista che conferma di essere la voce più importante del cinema europeo di oggi.
Do Not Expect Too Much from the End of the World è strutturato in due capitoli che comprendono, sintetizzandoli, generi, tonalità e supporti differenti: A) Angela: un dialogo una conversazione con un film del 1981 e B) Ovidiu: materia prima, entrambi introdotti da un’epigrafe, la prima tratta da un haiku di Yosa Busan che recita: “Vecchia coperta | con cosa coprirò | la mia testa o i miei piedi?”, la seconda da un aforisma del poeta polacco Stanisław Jerzy Lec: “Ora che la tua testa ha sfondato il muro, cosa farai nella tua nuova cella?”. Domande appositamente senza una risposta, perché accompagnano lo spettatore dentro la realtà tardo-capitalista di Bucarest impossibile da definire, geografia di segni alienanti del consumo e del profitto.
Come avvisa provocatoriamente il titolo – citazione tratta ancora da Stanisław Jerzy Lec – dalla fine del mondo non bisogna aspettarsi molto. La fine del mondo sta già nel lavoro precario e sottopagato, nell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, nella disinformazione della pubblicità e della società dei consumi. Il mondo finisce quando la sveglia di Angela suona alle 05.50 del mattino: il mondo finisce e il film comincia. Angela è un perfetto prodotto della gig economy: lavoratrice sfruttata, impiegata in qualsiasi lavoro e in qualsiasi condizione per 16 ore al giorno da una multinazionale austriaca, dall’autista alla trasportatrice di lenti ottiche, fino ad essere la regista di video promozionali dell’azienda per sensibilizzare i lavoratori sul tema della sicurezza sul lavoro.
Il primo capitolo, dunque, segue gli attraversamenti in macchina lungo una Bucarest trafficata con cui Angela si trasferisce da una casa all’altra per filmare le esperienze di lavoratori mutilati durante l’attività di fabbrica. I video non solo denunciano la condizione miserabile dei lavoratori rumeni, ma rivelano con ironia antifrastica (il tono che Jude predilige per guardare la realtà) la condizione di sfruttamento a cui è sottoposta Angela stessa: sfruttati filmano sfruttati, alimentando l’inganno pubblicitario della multinazionale, a cui non interessa minimamente la salute dei suoi dipendenti. Anche al di fuori degli impieghi umilianti a cui è sottoposta e agli orari disumani che la costringono per la stanchezza ad addormentarsi al volante dell’auto, Angela è produttrice di immagini, contenuti e valore. Nel tempo libero, infatti, carica brevi video su Tiktok dove dietro alla maschera-filtro dell’alter-ego machista e simil putiniano di Bobiţă inscena monologhi grotteschi dal linguaggio antisociale e provocatorio, rappresentazione schizoide di una vita ridotta al lavoro e al consumo in una Romania al tempo della guerra in Ucraina e della crisi post-pandemica.
Il road-movie di Angela dialoga dialetticamente con alcune sequenze di un film del 1981 di Lucian Bratu, Angela merge mai departe, storia propagandistica di una taxista che si innamora di un suo cliente nella Romania di Nicolae Ceaușescu, e di cui Radu Jude preleva alcune scene per rimontarle all’interno della sua narrazione, confrontando attraverso un montaggio analitico – e non descrittivo, non narrativo – due epoche storiche, due soggettività femminili (omonime) nel contesto di società post-totalitarie, quella del comunismo reale di Ceausescu e quella capitalista della Romania europea, in un sarcastico continuum tra finzione e realtà che vede Dorina Lazar (l’attrice che interpreta Angela nel film di Lucian Bratu) essere madre di Ovidiu, operaio infortunato e manipolato dalla multinazionale, protagonista della testimonianza che occupa, con un’unica inquadratura fissa, gli ultimi quaranta minuti del film, nonché suo secondo capitolo.
Inoltre l’accostamento si traduce anche in uno slittamento di supporto, in quanto se gli spostamenti di Angela vengono filmati con uno sporco e pastoso 16mm, il film di Lucian Bratu brilla dei colori accesi del 35mm, che viene ingrandito fino al punto limite della sua grana per rivelare poeticamente elementi sovversivi impressi dentro un quadro dopotutto convenzionale, dettagli inavvertiti e involontari dentro il campo dell’immagine e della storia, figure povere dagli abiti logori con gli occhi rivolti per un attimo nella direzione dell’obiettivo, dove l’individuo e la spregiudicatezza del cinema si incontrano per eternarsi nello scorrimento della pellicola, che è anche, sempre, scorrimento del tempo: presenze fantasmatiche messe in risalto e che ribaltano la gerarchia che si genera dentro l’inquadratura, presenze che rimandano a tutto ciò che ogni immagine nasconde, occulta, dimentica, di cui i brevi video di TikTok sono costellati, come una galassia invisibile o un archivio (un’archeologia) digitale sommerso. Jude ricorda poi allo spettatore tutto questo con un’ironia caustica, ponendosi ai margini dell’inquadratura nei panni di un rider Glovo, chiedendo di guardare oltre ciò che sta in primo piano.
Il corpo si fa immagine e l’immagine si fa corpo. Un corpo-immagine falsificabile, manipolabile, controvertibile, come dimostrano i video promozionali messi in scena da Angela dove i lavoratori drammatizzano forzatamente il loro racconto per rendere il messaggio del video più vero, o i contenuti creati per Tiktok in cui un filtro si interpone tra la realtà e la sua rappresentazione, o come dimostra Radu Jude stesso intervenendo su un vecchio film del 1981. Proseguendo un discorso già avviato con I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians e Bad Luck Banging or Loony Porn (il secondo capitolo in particolare), Do Not Expect Too Much from the End of the World è forse prima di tutto riflessione sui modi di produzione di immagini all’interno della società dello spettacolo capitalista, nell’iconosfera post-moderna – dove convivono più dispositivi, dal formato verticale di un cellulare alla pellicola 16mm e più linguaggi, dal piano-sequenza alla ripresa selfie da social-network, dal film di genere al film-saggio – in cui serve chiedersi: chi è soggetto e oggetto dell’immagine, chi il suo produttore, in quale rapporto si trova con il reale, quale il suo grado di riproduzione, quale di falsificazione, nella consapevolezza debordiana che nel mondo rovesciato, il vero è un momento del falso e che marxianamente la storia, e l’immagine che la trasmette, si ripete sempre due volte, prima in tragedia e poi in farsa.
Per questo dietro ogni sequenza del film risiedono immancabilmente queste categorie, che lo spettatore è chiamato a leggere e decifrare: verità e falsità, realtà e finzione, tragedia e farsa. Angela finge di lavorare, di non essere sfruttata, quando è costretta ad andare a prendere in aeroporto Doris (Nina Hoss), l’amministratrice delegata della multinazionale per cui lavora. Angela le racconta di un tratto di strada disseminato di seicento croci a causa degli incidenti stradali. Dal racconto Jude stacca improvvisamente (sempre con tono ironico) su alcune fotografie mute delle croci, come a ribadire l’annullamento del confine tra parabola e sua rappresentazione, tra Dichtung und Wahrheit (poesia e verità), l’opera di Goethe citata da Angela quando scopre che Doris è lontanissima parente del poeta tedesco. Oppure, ancor più esemplare, è il secondo capitolo dedicato al racconto di Ovidiu, un longtake di quaranta minuti che diventa messa in scena allo stesso tempo tragica e farsesca di una società che divora sé stessa, che si riproduce grazie allo sfruttamento dei più deboli e dei più poveri, in cui il ricco e il padrone, detenendo i mezzi di informazione, possono reiterare l’inganno all’infinito, fino al ridicolo, al riso, alla farsa per l’appunto, o alla post-produzione dei cartelli green-screen vuoti dove dovrebbe comparire il testo della testimonianza di Ovidiu (ovviamente ritoccabile a piacimento), che secondo le indicazioni del regista dello spot potrebbe richiamare il celebre videoclip Subterranan Homesick Blues di Bob Dylan, girato da D.A. Pennabaker con sullo sfondo Allen Ginsberg.
In questo complesso intreccio tra storia, società e cinema Radu Jude suggerisce una possibile postura: guardare dietro la superficie dell’immagine analogica e digitale, ribaltarla e scrutarne dritto e rovescio, indagarne i rapporti sociali e di classe che media e riflette, passando contrappelo alla storia e al cinema e guardarli non come monumenti statici, ma come archivi scomponibili e dialetticamente ricostruibili, composti di immagini e sequenze che custodiscono un senso da proteggere, svelare, trasformare a seconda della direzione e della qualità dello sguardo che vorremmo gettare sul mondo, sulla società, sulle immagini (tantissime) che ci pervengono ogni giorno dal web, dai social network, dalla televisione, dai cartelloni pubblicitari nelle strade.