Il linguaggio del potere contemporaneo parla spesso per polarizzazioni astratte, nette contrapposizioni morali (moralistiche). Diventa altrettanto spesso un linguaggio muto e incomprensibile, vuoto e alienante, come l’accumulo anodino di notizie e informazioni ci dimostra quotidianamente. DVA dà forma a un potere invisibile attraverso il suono: in apertura una voce robotizzata e spersonalizzata pronuncia una sequenza di antonimi svuotati di senso (destra-sinistra, sopra-sotto, vita-morte), introduzione al paesaggio urbano apocalittico e brutalista di una Mosca cyberpunk, grigia e disabitata, dove una sirena d’emergenza risuona a vuoto e gli altoparlanti impartiscono ordini insensati a una popolazione inesistente. Poi un uomo, due sue amiche, alienati in gesti sconclusionati, in domande senza risposta: che cos’è, da dove arriva il suono, forse non importa nemmeno. L’uomo cerca un cane scomparso, ma si ritrova improvvisamente in un universo parallelo dove non c’è distinzione tra vivi e morti, ma in cui la parola “morte” è proibita. Il linguaggio del potere nasconde, cancella, dunque come parlare e mostrare tutto questo?
Nella sua forma poetica ermetica, dove l’associazione visiva prevale sulla logica del racconto, DVA racconta una Russia che esiste nel sogno mistico alienante, premonitore ed escapista dei suoi abitanti. Tra il disastro e la sua previsione si muove la percezione del protagonista e del film. In una Russia iper-nuclearizzata, militarizzata e in guerra, non può che essere così. E l’urgenza della regista sembra proprio essere la ricerca di un linguaggio per esprimere questo sentimento di malessere. La scelta del genere post-apocalittico permette di vedere alla realtà obliquamente, ma allo stesso modo la sintassi a-logica, la visionarietà delle immagini e il loro mistero, scardinano le regole del genere, invitano lo spettatore a un rapporto mistico, per l’appunto, con l’immagine, come da tradizione russa.
Viene in mente un film russo che in un certo senso compie un’operazione linguistica opposta, ma che ricerca attraverso il cinema, come DVA, le origini e ragioni di un sentimento d’esclusione, marginalizzazione e repressione nella classe giovanile dissidente del paese: How to save a dead friend di Marusya Syroechkovskaya, premiato come Miglior Film Antropologico allo scorso Festival dei Popoli. Nel film di Syroechkovskaya la forma diaristica in prima persona (e prima persona plurale) azzerava ogni mediazione e confine tra realtà (la relazione tra la regista e il suo ragazzo nella Russia putiniana) e costruzione formale; al contrario Alexandra Karelina sembra insistere sull’irrealtà della Russia contemporanea e dei sintomi di un potere capitalista schiacciante e apparentemente incontrollabile: per questo DVA è composto di disturbi di frequenze, malformazioni ottiche, perdite di segnale, frammenti visivi, interferenze, comparse e scomparse, suoni enigmatici, fino al crollo del suo stesso linguaggio simbolico, fino alla visione fuori fuoco dell’oggetto della ricerca.
Tra film di genere e poesia visiva, DVA è un’esplorazione visuale di una città, Mosca, sdoppiata, militarizzata e schizofrenica; è anche un film antimilitarista, espressione liricamente simbolica di un disagio giovanile represso dalle forme di comunicazione alienanti e propagandistiche di un potere imperscrutabile, che censura finanche i concetti di vita e morte.