Franco Piavoli, lo diciamo senza problemi, è uno dei più importanti registi italiani di sempre. Capace di infondere nel suo cinema un lirismo sì altissimo ma mai al di sopra della più terrena delle realtà: quella del mondo contadino e rurale che ha accompagnato l’intero corso della vita dell’artista. In occasione della presentazione all’interno del Concorso Gabbiano del 41° Bellaria Film Festival di Perduto paradiso in due rulli di Luca Ferri, Morgan Menegazzo e Mariachiara Pernisa – che vede Piavoli in qualità di attore e non di regista – abbiamo avuto con lui un’intensa e appassionata conversazione, arricchita dalla comparsa estemporanea di Michelangelo Frammartino, amico e in qualche modo erede del cinema di Piavoli.
Davide Perego: Il cinema la affatica o le dà sollievo?
Il cinema è un sollievo. Adesso devo fare un altro lavoro, ma sarà difficile portarlo avanti, sono stanco.
Davide Palella: Torna al Bellaria Film Festival non come regista ma come attore nel film di Luca Ferri, Mariachiara Pernisa e Morgan Menegazzo. Non dietro alla macchina da presa ma davanti…
Sì, lì faccio un po’ l’attore, è vero.
Davide Palella: Come è stata l’esperienza?
È stato un gioco, perché Luca ha cominciato a farmi questa intervista, non sapevo neanche facesse sul serio. Pensavo volesse divertirsi, passare un po’ il tempo. Allora io ho raccontato questo mio progetto che ho da parecchi anni ma che non farò mai: Paradiso terrestre. Vorrei fare un film sul paradiso terrestre.
Davide Perego: Sempre dalle sue parti?
Sì, ma scegliendo varie località.
Davide Palella: Però il film si chiama Perduto Paradiso…
Non è il mio film…
Davide Palella: Ha perduto il suo paradiso?
No, come fai a perdere una cosa che non hai mai avuto (ride). Certe illusioni paradisiache le abbiamo tutti, no? Anche tu hai avuto momenti di paradiso, momenti di incontro con Eva. L’incontro con Eva è il momento più bello del paradiso.
Davide Perego: Anche lei ha vissuto tanti momenti con la sua Eva…
Sì, è stata una lunga condivisione. Ci siamo conosciuti che io avevo vent’anni e lei diciotto. L’ho conosciuta dopo che avevo passato momenti di inferno. Credevo che nessuna donna mi avrebbe accettato, invece poi ho incontrato Neria, una donna dolcissima e bellissima con cui ho condiviso una vita meravigliosa. La sogno sempre, anche il mese scorso. Ho sognato che facevamo una passeggiata, io mi allontanavo e lei mi richiamava. Tornavo indietro e ci siamo abbracciati ancora.
Davide Palella: Come si è infilato il cinema nel rapporto con la sua Eva?
Ho condiviso tutto con Neria. Ne parlavamo giorno e notte.
Davide Palella: Nel 2013 lei ha già collaborato con Ferri in Habitat [Piavoli]. C’è un rapporto di collaborazione fra voi due…
Con Luca c’è un rapporto confidenziale. In Habitat [Piavoli] si vede il mio lato domestico, la mia casa e i suoi dintorni. Pozzolengo è un posto che amo tantissimo, che è cambiato poco dall’epoca.
Luca Mannella: Pozzolengo è il suo paradiso terrestre in qualche modo?
Sì, Pozzolengo è un po’ il mio paradiso terrestre. Faccio ancora delle lunghe passeggiate a piedi, nonostante la stanchezza. Su quelle colline mi sono innamorato, sono un punto di riferimento per il mio cinema.
Davide Palella: Mi sembra di capire che fa spesso ritorno ai luoghi che ama. Fa mai ritorno ai suoi film?
Ultimamente no. Con i miei film ho un rapporto d’affetto, qualche volta mi capita di rivedere qualche frammento.
Davide Palella: Pianeta azzurro lo ha visto pure Tarkovskij…
Sì, mi ha mandato una lettera in cui sintetizzava in poche parole il film…
Luca Mannella: “È un poema, un viaggio, un concerto sulla natura, l’universo, la vita. Un’immagine diversa da quella sempre vista”
Lo definisce giustamente un concerto. Pianeta azzurro lo avevo girato in totale libertà, lo aveva prodotto Silvano Agosti. Volevo fare un cinema che si affidasse liberamente all’immagine e al suono.
Luca Mannella: Al festival verrà proiettato Voci nel tempo. Forse è il film in cui più si manifesta la tendenza del suo cinema alla rapsodia e alla polifonia.
In Voci nel tempo uso i dialoghi, la voce umana, la comunicazione, soprattutto per il loro valore fonico. Come è stato fatto con la lirica, nel passaggio alla musica sinfonica, quando fu abbandonata la parola. Nel mio caso la parola ha ancora un senso, ma si affida alla capacità di comunicare col suono, col messaggio sonoro. Non ci rendiamo conto di quanto sia importante il valore fonico delle nostre parole. Le nostre parole sono musica. Le parole si assemblano le une alle altre in una sequenza dove ci sono timbri, volumi, pause, toni, come nella musica. Quando parliamo intervalliamo sempre timbri e volumi: per intimidire per esempio.
Luca Mannella: Nel film questa polifonia di suoni come l’ha gestita rispetto alle immagini?
L’ho gestita facendo delle scelte precise nella selezione dei suoni, delle parole e dei silenzi…
(Entra Michelangelo Frammartino nella stanza)
FP: Accanto alle opere liriche e ai melodrammi a un certo punto si è sviluppata la musica sinfonica, basata soltanto sui suoni e non sul significato delle parole. E si riusciva a comunicare con queste composizioni, soprattutto tra Seicento e Settecento. Penso sia possibile fare un cinema che si scosti dall’utilizzo della parola, che si allontani dal “teatro filmato”. Anche il cinema di Michelangelo è sinfonico…
MF: Se lo dici tu non posso che crederti…
FP: Il tuo cinema si affida alla comunicazione dei suoni e delle voci dei protagonisti. Arrivano messaggi completi attraverso questo linguaggio alternativo a quello del cinema dominante. È una linea di cinema alternativa.
MF: Questa cosa accade, sta accadendo… Penso sia una fase abbastanza felice del nostro cinema. Abbiamo avuto d’altronde grandi maestri (ride).
Luca Mannella: Si può dire che è una linea che si affida di più al significante rispetto al significato. O meglio il significato viene veicolato prevalentemente dal significante, come è stato per alcuni poeti del Novecento italiano. Penso a Zanzotto…
FP: C’è questo parallelismo in poesia e anche in pittura, con il passaggio all’arte astratta. Non importa più se sia una figura umana, animale o vegetale, ma importa la composizione delle cromie e delle prospettive. È una sorta di arte parallela destinata ad avere momenti di sosta e di sviluppo. Allo stesso modo nel campo del cinema c’è il cinema che si affida al testo e ai dialoghi e il cinema videosinfonico che si affida alla comunicazione sonora, oltre che ai gesti e allo svolgimento drammatico. Quando ho visto Il dono sono rimasto incantato e felice che esistesse questa linea, questa via alternativa. Ho visto anche Le quattro volte e Il buco.
Davide Perego: Il suo è stato spesso definito un “cinema sensibile”. Le sue immagini si sentono quasi sotto le dita, come si sentono gli odori. Mi ricordo che in un’intervista Pollock, a una giornalista che gli chiedeva quando aveva capito che un quadro fosse finito, rispondeva: quando capisce che ha finito di fare l’amore? Il cinema rispetto alla pittura ha dei mezzi tecnologici con cui registrare la realtà, è vero, ma lei ha mai provato la sensazione di “aver preso” un’immagine?
Ricordo momenti in cui ero esaltato dalla ripresa, perché superava l’attesa progettuale. Erano momenti simili all’orgasmo. È una sensazione psicofisica talmente densa che ti trovi in uno stato confusionale. Quando si riprende a volte si ha la sensazione di aver fatto l’amore.
Davide Palella: E tu Michelangelo?
MF: Succede quando si perde il controllo di una costruzione. A un certo punto le cose funzionano da sole. È un momento intenso, che in realtà è dato proprio dalla non corrispondenza tra significante e significato. Perché al cinema non si incontrano, come il poligono dentro al cerchio. Al cinema c’è l’accadere e l’accaduto, tranne che in quello di Franco (ride).
Luca Mannella: Dalla critica i tuoi film sono sempre stati chiamati “film-poema”. So che considera L’Infinito di Leopardi come uno dei primi esempi di montaggio e sensibilità cinematografica. Leopardi nello Zibaldone aveva anche teorizzato il concetto di “doppia vista”, una facoltà della pupilla e parallelamente della mente, una sorta di duplicità dello sguardo che divide il mondo sensibile tra fisico e metafisico, reale e immaginario. Il tuo sguardo è leopardiano anche in questo senso?
Nell’Infinito c’è una straordinaria convergenza di elementi espressivi, anche cinematografici. C’è un’alternanza continua di primi piani e piani lunghi e lunghissimi, silenzi e voci, rumori e suoni. Sempre caro mi fu quest’ermo colle | e questa siepe, che da tanta parte | dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. La siepe in primissimo piano è una composizione cinematografica straordinaria. Ma sedendo e mirando, interminati | spazi di là da quella… La siepe mi aiuta ad allungare lo spazio visivo… e sovrumani | silenzi, e profondissima quiete | io nel pensier mi fingo, ove per poco | il cor non si spaura. Vede l’infinito. E la componente sonora è meravigliosa. E come il vento | odo stormir tra queste piante… primo piano sonoro delle foglie degli alberi sotto cui è seduto… io quello | infinito silenzio… campo sonoro lunghissimo… a questa voce | vo comparando. Accostamento di primo piano e piano lunghissimo, sonoro e visivo… e mi sovvien l’eterno. Da questa associazione percepisce l’eternità del tempo… e le morti stagioni, e la presente | e viva, e il suon di lei. Così tra questa | immensità s’annega il pensier mio: | e il naufragar m’è dolce in questo mare. La conclusione è un dolce naufragio. Il naufragio è una tragedia per tutti: un’immensa e dolce tragedia. Anneghiamo in un mare infinito. Nel naufragio troviamo una percezione del mondo.
Luca Mannella: Anche nel suo cinema ci sono dei naufragi… Penso a Nostos, il ritorno. Vuole parlarci invece della dimensione temporale nel suo cinema?
Molto più che in poesia e nelle arti figurative il cinema è un’arte che si struttura nel tempo: lo scorrimento delle inquadrature, la durata, la durata tra un’inquadratura e l’altra, il movimento e la stasi all’interno dell’inquadratura.
Davide Palella: Si scolpisce il tempo, come scriveva Tarkovskij.
Tarkovskij non solo lo ha scolpito. Lo ha dipinto, disegnato, polverizzato, disteso all’infinito, fino al non-tempo.
Luca Mannella: Alla base del suo cinema sembra sempre esserci uno sguardo desiderante che osserva il mondo. Ci può parlare di quanto è importante per lei il tema del desiderio?
L’espressione del nostro volto e dei nostri occhi è importantissima. Cercare di avere un contatto con un’altra persona, un animale, le foglie degli alberi, gli orizzonti che ci circondano, le stelle a cui puntiamo, che sono una proiezione per un altro mondo di cui non sappiamo niente. Sappiamo di più dei cani, dei cavalli, delle scimmie, forse anche delle lucertole e delle pulci. Ma cosa sappiamo noi? Molto probabilmente ci sono esseri più sviluppati di noi che non possiamo incontrare, accarezzare, stringere. O ci saranno nel futuro. Ma non sappiamo quanti mondi ci siano.
Luca Mannella: Per concludere vorrei leggerle dei versi di Umberto Bellintani in cui penso si condensi gran parte del senso del suo cinema: «dolce chiude | l’ora di sera col risorgere di una | ampia stellata. Dunque | forse soltanto un dolcissimo rapporto | fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa | lento e veloce».
È fantastica questa poesia. C’è questo montaggio tra tempo veloce e tempo lento. Al cinema col montaggio si stabilisce il rapporto tra i ritmi temporali. Sì, ci rivedo molto del mio cinema. Bellintani è stato un mio carissimo amico.