Lungo cinque anni, Wang Bing ha filmato la vita quotidiana di alcuni degli innumerevoli piccoli workshop tessili di Zhili, a 130km da Shanghai. Per tre ore e mezza, vediamo ventenni (o poco più, o poco meno) alle prese con la macchina da cucire (pagati a pezzo, lungo ore giornaliere che superano abbondantemente la dozzina), con amorazzi tra colleghi, o con serratissime negoziazioni salariali coi proprietari.
Il modo è quello della frontalità: al solito, la cinepresa di Wang si cancella al massimo grado, anche quando si trova a seguire i rari spostamenti dei personaggi al di fuori dei capannoni (dove gli operai dormono pure). L’impressione ricercata è quella dell’assenza di un soggetto filmante. I soggetti, del resto, in Youth contano poco: ogni lavoratore incontrato è accompagnato da nome, età e provenienza, ma nel giro di pochi minuti ci dimentichiamo puntualmente di ognuno di essi. I soggetti sono anonimi e intercambiabili, perché l’unica sostanza presente non sono i soggetti, ma è il lavoro. Al centro di Youth c’è il tempo del lavoro. Chi lo compie non conta: ciò che conta è il lavoro come entità acefala, che assai palesemente dispone dei ritmi del film e li determina. Ai margini di questo centro assoluto che è il tempo di lavoro, seguito scrupolosamente dalla cinepresa di Wang e accuratamente ricostruito al montaggio, c’è semplicemente la vita degli operai, ridotta a nulla più che un’appendice residuale, a un’escrescenza estemporanea.
L’attenzione alla microfisica del lavoro, ai suoi tempi e alle sue dinamiche spietatamente ripetitive e per questo sempre impercettibilmente diverse, è funzionale dunque all’attenzione per ciò che si produce in surplus a lato del lavoro. Ma all’interno di questo “materiale di scarto” che poi sarebbe la vita stessa, nella massima irrilevanza di qualunque dimensione soggettiva, non tutto è indifferente: poco a poco, la costruzione del film ci porta a notare in maniera sempre più inequivocabile che nei flirt piccoli e grandi come nelle informali ma furibonde contrattazioni para-sindacali, non tutti se la cavano allo stesso modo. Emerge, cioè, come centrale la differenza di genere, unica sostanza al di là del soggetto capace di interagire alla pari con la sostanza-lavoro: la gestione del “plusvalore” come quella del “plusgodere” (come direbbe un certo freudo-marxismo) è in mano alle donne molto più saldamente che agli uomini.