Ricordate il sapore di quei caldi pomeriggi estivi trascorsi chiusi in cameretta, da soli o con gli amichetti, in un profluvio di videogames, cartoni animati e giochi da tavolo? Per chi ha oggi venti, trenta, anche quarant’anni, quel sovraccarico stimolativo di prodotti culturali – provenienti in gran parte da paesi lontani e opposti come America e Giappone – ha generato universi immaginifici che si mescolano e si confondono tra loro senza soluzione di continuità, che irrompono nella quotidianità della vita ammantandola di un sentore magico, sibillino eppur fittizio in fin dei conti. Di questo infantilismo incondizionato è pervaso il primo sorprendente lungometraggio del giovane statunitense Weston Razooli, Riddle of Fire, presentato alla 55esima Quinzaine des cinéastes e copertina del mese per i Cahiers du cinéma.
Tre bambini sfrecciano come Bōsōzoku (il riferimento ad Akira sarà esplicito poco più tardi) sulle loro biciclette motorizzate tra le foreste del Wyoming. I passamontagna color pastello e le pistole a vernice di cui sono armati promettono già dalle prime immagini il tono d’edulcorata ribellione che guida tanto la regia di Razooli quanto i caratteri dei giovani protagonisti, intenti nel preambolo del film a infiltrarsi all’interno di un magazzino industriale per compiere il furto di un preziosissimo oggetto. Preziosissimo oggetto che si rivela ben presto essere nient’altro che una console dal nome “Otomo” (ecco qui il rimando al sopracitato Ōtomo Katsuhiro) il cui design ricorda un ibrido apolide e multiculturale tra la prima Xbox e il Nintendo GameCube. Ed è proprio in questo collasso di affluenti culturali – di cui Razooli è il primo a essere imbevuto – che risiede l’appeal generazionale del film. E servendosi di un’amalgama tra estetica fantasy alla Dungeons & Dragons, moduli di progressione narrativa tipici dei J-RPG e perfino campionamenti audio di Dragon Ball Z usati a mo’ d’intermezzo sonoro, il tutto finisce per risultare un aggiornamento contemporaneo, filtrato attraverso la lente di The Legend of Zelda, di un grande classico degli anni 80 come I Goonies di Richard Donner.
Una volta tornati a casa i tre collegano la console alla televisione soltanto per rimanere delusi quando scoprono che la madre, costretta a letto da un’influenza debilitante, ha bloccato l’uso della tv tramite una password. L’unico modo che i nostri hanno per convincere l’inferma detentrice della parola segreta è un baratto: dovranno portarle una torta. Non una torta qualsiasi bensì una Blueberry Pie che, guarda-caso, è purtroppo esaurita nella pasticceria in cui viene prodotta. Ecco allora che il meccanismo narrativo che piega la realtà di Riddle of Fire in un grande dungeon cinematografico si innesca. Meccanismo che vede i personaggi incontrati dal party lungo la sua avventura come NPC ai quali dover dare o poter ricevere questo o quell’altro oggetto, in un’interminabile e concatenata serie di quest per ottenere nel proprio inventario il tanto agognato item, in questo caso un rarissimo speckled egg, ingrediente indispensabile per la buona riuscita della torta.
Se a qualcuno la recitazione potrebbe giustamente apparire acerba, la sceneggiatura claudicante e la stratificazione sottotestuale pressoché nulla, a venire in soccorso alla scostante padronanza della messa in scena di Razooli è il sentimento di libero e sincero divertimento che trasuda ciascuna inquadratura. Sì, perché le ingenuità realizzative di un film piccolo e naïf come Riddle of Fire non sono date da chissà quale instabilità della forma, quanto più da un divertitissimo spirito del gioco col quale la pellicola è stata girata. Un prodigioso sense of wonder che guida i vari aspetti realizzativi dell’opera per farla rassomigliare, nella più alta accezione del caso, a un film dai tratti amatoriali, girato da un affiatato gruppo di amici colla complicità di un’afosa noia domenicale. Ma se tutto sembra sempre stare entro i confini del gioco, quando i tre bambini incontrano una malvagia organizzazione criminale l’opprimente pericolosità del mondo adulto irrompe, e improvvisamente le pistole a vernice dei ragazzini, se messe a confronto con le 9mm dei cattivi, tornano a essere ciò che sono veramente e cioè nient’altro che giocattoli.
Seppur ben lontana dalla profonda immediatezza di Kiarostami, la costante proroga del momento ludico desiderato dai protagonisti riporta alla mente gli infiniti detour dell’iraniano come Il viaggiatore e Dov’è la casa del mio amico? Ma se l’esordio di Razooli è in grado di evocare sentimenti così puri e radicati nei recessi del nostro cuore, allora siamo pronti a salpare con lui sulle vele della sua prossima avventura.