Koffi, giovane congolese che vive in Francia con la compagna caucasica Alice, deve fare ritorno in patria per una dote coniugale. L’accoglienza non è delle migliori e la situazione degenera in seguito a un incidente che scatena la superstizione locale. A volte serve un rapper, prestato al cinema, per infondere uno sguardo contemporaneo e privo di luoghi comuni nel cinema d’autore. È il caso di Baloji, MC belga-congolese, che con Augure ci ricorda il potenziale inespresso del realismo magico africano, quello che ha saputo regalare in passato capolavori come Yeleen, la luce di Souleymane Cissé. Baloji si affida a un cast impeccabile, di cui fa parte Eliane Umuhire, già preente in Neptune Frost, fondamentale titolo afrofuturista degli ultimi anni.
Suddiviso in quattro segmenti, distinti in base al rispettivo protagonista ma in realtà intersecati da continui rimandi che complicano la narrazione, Augure è un’esperienza prima di tutto sensoriale. La regia di Baloji alterna choc e quiete dosando opportunamente le misure: l’impatto dell’arrivo in Congo di Koffi e Alice è avvertito dagli spettatori con intatta potenza, mentre prevale la sensazione che tutto possa succedere e che il destino sia nelle mani di un luogo ostile, regolato da tradizioni imperscrutabili. Ma nell’affresco di Baloji ogni certezza è destinata a mescolarsi in una zona grigia tra verità e menzogna, mentre la vita di Koffi si mescola a quella di Paco, giovane stregone a capo di una gang che indossa un tutù rosa, o tenta una difficile riconciliazione con la madre Mujila, provata da una vita di inutili sofferenze.
La struttura apparentemente caotica di Augure si regge su una sorta di contraddittoria coerenza, che mescola i residui di una ferita coloniale mai rimarginata e le lotte intestine di un popolo che non conosce la serenità. Baloji racconta queste tensioni per allegorie, dando vita a coloratissimi scontri tra gang e inframmezzando la narrazione con sequenze flash che reclamano una reazione sensoriale – i funerali ispirati al Mardi Gras di New Orleans, l’incontro tra un giovane Paco e una strega della foresta, che pare emergere da Zio Boonmee di Apichatpong.
Interruzioni del flusso narrativo che persistono a livello retinico, per mescolarsi in un oscuro calderone destinato a ricomporsi solo dopo i titoli di coda. Questi sono a loro volta accompagnati da una canzone, Kinsiona, che per il Congo significa indipendenza, storia e orgoglio: l’autore è infatti l’eroe nazionale Franco Luambo, straordinario chitarrista e re della rumba congolese (recuperate il doc sul tema The Rumba Kings), che la dedicò alla scomparsa del fratello minore. La stessa perdita patita da Paco, in una risonanza che si perpetua dentro e fuori la dimensione diegetica di un debutto da non lasciarsi sfuggire.