La telecamera insegue una donna bionda, slanciata, con un cappello stile cowboy sulla testa: è Vera Gemma, figlia di Giuliano, star dei western all’italiana degli anni Sessanta. Si vedono solamente le spalle, il grande cappello, i capelli biondo platino, e davanti a lei un set fotografico all’ingresso di un locale dove la cantante Arisa è in posa, illuminata dai flash delle macchine fotografiche. Non appena Arisa si sposta, Vera entra in scena, con i suoi costumi e la sua maschera. Tizza Covi e Rainer Frimmel cominciavano La Pivellina (2009) pressappoco con lo stesso sguardo, la stessa ripresa ad inseguimento. Patrizia, circense, al posto di trovare il suo cane Ercole ritrovava quasi magicamente su un’altalena una bambina abbandonata, Asia. Anche lì un tratto distintivo, un elemento corporeo attrattivo e magnetico per la telecamera conquistava l’occhio: una chioma rosso fuoco.
Con questo gesto cinematografico di inseguimento e attrazione, Vera (2022), premiato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia per miglior regia e miglior attrice, catapulta chi guarda in un universo instabile, dove realtà e finzione, cinema documentario e fiction sono categorie che si combinano, interagiscono, si fanno corpo in un personaggio composto di verità e falsità, dove il falso si incontra col vero come suo momento, nella doppia immagine che genera ogni opera cinematografica. Vera è un doppio, una maschera. Per questo incarna e abita perfettamente la poetica di Tizza Covi e Rainer Frimmel, in cui la fiction si innesta sulla materia documentaria e la scrittura ruba assorbe si fonde alla realtà per rimaneggiarla con cura e desiderio, in una sceneggiatura che si genera in collaborazione con il reale e le persone filmate richiamando tonalità e figure neorealiste, quasi pasoliniane (Accattone è uno dei film preferiti di Vera).
L’ambiguità documentaria prepara la realtà ad un cinema di piccoli eventi, epifanie, incontri, a partire dall’incidente con cui Vera e il suo autista (Walter Saabel) feriscono un bambino di otto anni e un padre scapolo (Daniel De Palma), moderno accattone cittiano senza scrupoli, truffatore per sopravvivenza, sottoproletario buono ma ingannatore, protetto dall’amore cieco della madre e disposto a usare il figlio per racimolare qualche soldo. Vera si inserisce nel nucleo familiare convinta di incontrare la vita vera, ricca di contraddizioni, dove bene e male si scontrano come sul corpo tatuato di Daniel: una dimensione affettiva autentica, dove ogni maschera sociale può essere deposta e accantonata, dove sentimenti e parole si possono dare e ricevere senza secondi fini, dove può reinventarsi un’identità sottrattale dall’ombra paterna (riproiettata negli home movies mai guardati), come il figlio sconosciuto di Goethe che riposa in un cimitero di Roma, solo e senza nome, sulla cui lapide Vera Gemma e Asia Argento si interrogano ironicamente sulle possibilità umane sommerse e represse racchiuse in quel (e nel loro) pesante cognome.
Ma così non è. Vera attraversa un mondo di bugie, di truffe e approfittatori. Dal mondo dello spettacolo alla famiglia di Daniel non sembra esserci scampo: Vera è usata, raggirata, imbrogliata. Solo il legame “familiare” con Walter, l’autista, resta sincero, il quale profetizza nel pugno chiuso sopra cicatrici di antiche coltellate il destino della sua padrona. In qualche modo la sceneggiatura dialoga per antifrasi con il gesto di messa in scena: Vera ricerca l’autenticità in una rete di rapporti affettivi che la raggirano e allo stesso tempo il suo corpo corretto dalle operazioni chirurgiche diventa veicolo di un messaggio di verità. Il finale aperto del film lascia intendere tutta l’ambiguità della materia contraddittoria che chiamiamo reale, delle relazioni umane, dell’identità e infine dello sguardo che osserva, registra, inscena e imprime su pellicola 16mm il magma dell’esistenza, del falso e del vero, in una prossimità che confonde i contorni. L’operazione di Tizza Covi e Rainer Frimmel non cerca di indebolire il linguaggio del documentario per ingaggiare la realtà con meno mediazioni possibili, ma ri-usa le mediazioni, le fisiologie e le ambiguità della realtà per restituirne un’interpretazione, per estrapolarne un contenuto sincero. Perché i cattivi poi così cattivi non sono mai, come canta Loredana Berté in sottofondo.
Tizza Covi e Rainer Frimmel perseguono un cinema che critica la vita, scriveva Paul Valéry; e in qualche modo critica il cinema e i suoi modi di riprodurre la realtà. Vera (ci) lancia una chiara accusa attraverso il monologo di Tony Montana in Scarface: (ci) dice che avete da guardare, siete solo una manica di coglioni […]. Voi non siete buoni. Sapete solo nascondervi, solo dire bugie. Io non ho questo problema. Io dico sempre la verità, anche quando dico le bugie. Anche il cinema di Tizza Covi e Rainer Frimmel dice la verità dicendo bugie, perché fa rassomigliare il cinema alla vita, e non il contrario. Vera è l’unico corpo “falsamente” vero in un mondo di simulacri identitari, familiari, cinematografici.