In uno spazio-tempo di pochi gradi obliquo al nostro, talmente pochi che a Seattle è ancora necessario indossare la mascherina per uscire di casa, le assistenti digitali Alexa e Siri trovano una concorrente in Kimi. Kimi si differenzia dai sistemi sopracitati nella misura in cui gli eventuali errori di comprensione nei comandi vocali dei clienti non sono corretti dall’intelligenza artificiale, ma da persone, da esseri umani. Impiegati tecnici ascoltano infatti le registrazioni tra le Kimi e i loro proprietari, e sistemano manualmente i malintesi linguistici, integrando ad esempio il gergo locale al vocabolario del software. Da questa premessa il passo alla paranoia è breve: la società produttrice di Kimi, Amygdala, è in possesso delle registrazioni di qualsiasi conversazione privata avvenuta in presenza di un dispositivo in funzione.
Kimi è un film pensato per la fruizione in streaming, frutto della collaborazione tra Steven Soderbergh e David Koepp (architetto, tra molti film, della sceneggiatura di Panic Room), che interessati a sperimentarsi in un progetto per piattaforme (nello specifico, HBO Max), lo definiscono un film da “sabato sera e bottiglia di vino”, ispirandosi a thriller anni ‘70 e ‘90, con un’attenzione particolare all’autorialità che attraversa The Conversation di Coppola. Come per Unsane (2018), dove il fenomeno delle truffe assicurative americane crea il contesto per un exploitation thriller sulla tematica dello stalking, in Kimi è esplicito il riferimento al caso reale di un Amazon Echo utilizzato per investigare un omicidio in Arkansas. Angela Childs, protagonista del racconto, lavora da remoto per Amygdala, trascorre le giornate ascoltando le registrazioni di Kimi e aggiustandone i bug, si prende cura ossessiva della propria igiene dentale in modo da evitare di dover andare dal dentista, tenta di uscire per incontrare il dirimpettaio che ha iniziato a frequentare durante la quarantena, ma fallisce quasi in tutto per il timore di abbandonare la propria casa. L’agorafobia di Angela non è però causa diretta del Covid, ma sintomo di un trauma precedente. L’accelerazione dello sviluppo e utilizzo dei mezzi di comunicazione digitali, avvenuta durante la pandemia, sembrerebbero permettere ad Angela di relazionarsi con il mondo esterno senza dover interagire davvero con esso. E sono proprio questi strumenti a permetterci di conoscere la sua realtà e la sua psicologia.
In Unsane la premessa paranoica viene sviluppata sfruttandone ogni possibilità drammatica: anche dopo avere rivelato il punto di vista della protagonista da inattendibile ad attendibile, quando la paranoia soggettiva diventa incubo reale, la problematizzazione drammatica del tema fa da cardine alle scelte di genere. Kimi invece, ambientato in un contesto realistico al limite della finzione speculativa, sceglie di sovvertire (forse deludere) le aspettative di un pubblico abituato all’esplosione di questo limite in stile Black Mirror e rendere l’approfondimento del sistema che crea paranoia quasi superfluo. Qui si riscontrano i principali limiti del film.
Immergendo la storia in una realtà identica alla nostra (oltre alla pandemia, alle videochiamate e agli assistenti AI, le proteste americane in piazza), il rapporto quotidiano con una tecnologia inquietante ma attuale non è altro che l’ambiente in cui inserire l’avventura di una lavoratrice che s’innalza ad eroina senza mai mettere in discussione la tecnologia di per sé, ma accettandola come dato di fatto e (in linea teorica) utilizzandola come strumento a suo vantaggio. L’ipotesi è interessante e apre le porte a quello che poi coerentemente sarà un mix di generi oscillante tra thriller psicologico, commedia e home-invasion.
Mostrando i processi digitali per esteso, Soderbergh e Koepp dispiegano l’interezza del primo atto all’interno delle mura domestiche e forniscono una solida struttura concentrica di punti di visti “sorveglianti”. Quando invia messaggi al vicino (messaggi mostrati in sovrapposizione grafica che si dissolvono sull’immagine) Angela, appostandosi alla finestra, può monitorare le sue reazioni; un altro dirimpettaio con un binocolo molto più analogico sorveglia Angela (in una serie di inquadrature alla Rear Window); Amygdala stessa sorveglia Angela tramite webcam (impossessandosi della sua impronta retinale). Ma soprattutto Angela, ascoltando le registrazioni, sorveglia ciò che accade nelle case degli altri ed è così che scopre un messaggio nella bottiglia. Una donna dopo essere stata stuprata dall’amministratore delegato di Amygdala viene uccisa dai suoi sicari per avere minacciato di denunciarlo. Il desiderio di rivendicare questa donna motiverà Angela a uscire finalmente di casa.
Al tempo stesso però le comunicazioni a distanza annullano le possibilità drammatiche di conoscere il personaggio chiuso in casa per tutto il primo atto, se non in modo didascalico. Ogni possibile chiave di comprensione della psicologia di Angela, il trauma dell’aggressione subita in passato che la motivano nella sua missione, l’ossessività delle sue abitudini, la morte del padre costruttore che le ha insegnato come utilizzare chiodi e trapani (armi che si riveleranno essenziali), le difficoltà della pandemia e la paura di uscire di casa, sono vere e proprie spiegazioni offerte da chiamate e videochiamate con la madre, con la psicologa, o con il costruttore che lavora al piano di sopra. Ed è invece quando Angela trova la registrazione della donna uccisa e la tecnologia inizia ad integrarsi e frizionare con la sua percezione della realtà che lo spettatore può sentirsi coinvolto nella complessità dell’ambiente e della sua protagonista: da qui in poi l’aspettativa di uno sviluppo complesso che comprenda il sistema paranoico che Angela sta per scoprire è più che giustificata. Il caso però è ormai risolto e la scelta è quella di affidare il terzo atto alla missione di Angela di salvarsi da dei sicari esterni all’azienda e alla realtà tecnologica – se non per un programmatore che da remoto la geolocalizza.
La scelta di non impegnarsi in una costruzione di trama più complessa vorrebbe essere bilanciata dalla soggettività di Angela, come avviene con successo nel caso di Harry Caul per The Conversation. Infatti, dopo una sequenza allucinogena di dutch tilts che mostrano il contrasto nella percezione di Angela dal mondo protetto e ossessivamente ordinato della sua casa a quello caotico delle strade di Seattle e l’entrata nell’inquietante sede di Amygdala, la risoluzione è data da un inseguimento che riporta Angela nel suo appartamento trasformando la dinamica in quella di una home-invasion. I sicari da micidiali diventano comici, chiedendo così un atto di fiducia al pubblico non ripagato proprio dalla mancanza di complessità della protagonista, le cui caratteristiche e motivazioni sembrano ora semplicemente predisposte su una scacchiera perché tutto torni. L’opportunità di fare utilizzare Kimi ad Angela per salvarsi esiste e viene colta ma non è sviluppata fino dove potrebbe.
Come insegna Walter Murch (montatore della maggior parte dei film di Coppola, tra cui The Conversation), la prima domanda da farsi prima di scrivere, dirigere, o montare un film è “che tipo di film voglio fare?”. Kimi rappresenta un’eccezione a questa regola, un caso in cui l’eccessiva consapevolezza del tipo di film che si è desiderato produrre porta a una sottovalutazione del proprio pubblico, un pubblico che, immerso nel contesto rappresentato dal film stesso, ha passato molto tempo chiuso in casa a guardare thriller psicologici sulle piattaforme mainstream – titoli rilasciati a un ritmo produttivo serrato quanto quello delle Kimi – e che ha di conseguenza raggiunto un’aspettativa nello sviluppo narrativo dei film “da divano” che richiede un coinvolgimento di gran lunga maggiore di quello proposto da Kimi.
Senza dover pretendere necessariamente complesse finzioni speculative, viene in mente l’esperimento Sorry to Bother You di Boots Riley, dove però il lavoratore che s’innalza ad eroe è sostenuto da una scelta totale verso l’assurdo e la dark comedy: in Kimi la chiave finale della protagonista, dark e cinica, non è infatti supportata né sufficientemente dialettica.