Mashhad è la seconda città più popolosa dell’Iran, situata nei pressi dei confini con il Turkmenistan e l’Afghanistan, ed è considerata una città santa per la presenza del Santuario dell’Imam Reza. Holy Spider, il nuovo film di Ali Abbasi, è stato ambientato proprio in questo luogo di pellegrinaggio, e rievoca un sanguinoso fatto di cronaca avvenuto a cavallo tra il 2000 e il 2001, quando un uomo, Saeed Hanaei, uccise 16 prostitute in nome di una “jihad contro la degradazione morale”. Per Abbasi, regista iraniano naturalizzato danese, si tratta del primo film ambientato nel paese natìo (anche se è stato girato in Giordania) ed è un ritorno alle origini con cui rivolge uno sguardo molto feroce al tessuto sociale del paese. Un film che, alla luce dei fatti recentemente accaduti e tuttora in corso in Iran, assume una rilevanza politica ancor maggiore.
Rispetto alla vicenda reale, la modifica più sostanziale riguarda l’aggiunta del personaggio della protagonista, Rahimi, una giornalista che da Teheran giunge a Mashhad e, accortasi che le autorità brancolano nel buio e tanto la polizia quanto la stampa non sembrano aver particolarmente a cuore il terribile caso, tenta in ogni modo di rintracciare il colpevole. Holy Spider si sviluppa quindi come un thriller efferato, che se da un lato (come vedremo) prende vita attorno a elementi profondamente legati all’identità del paese, dall’altro si distacca notevolmente dal cinema iraniano, con scene di nudo, di amplessi e di estrema violenza che sarebbero impossibili da rintracciare nel cinema locale, seguendo dunque il modello di vari thriller statunitensi (da Il silenzio degli innocenti a Zodiac) e ancor più del Bong Joon-ho di Memorie di un assassino. Lo sguardo cinematografico di Abbasi, d’altronde, è più prossimo a quello occidentale e non è un caso che sia stato chiamato a dirigere le ultime due puntate della prima stagione di The Last of Us. Ma i codici del cinema di genere in Holy Spider sono utilizzati quasi esclusivamente con funzione strutturale, accompagnando l’osservazione di una società in cui a una donna sola, senza marito, viene negata una stanza d’albergo, in cui un velo non indossato correttamente può causare problemi con la polizia morale (e l’invito rivolto dal concierge a Rahimi non può che far pensare alla più stretta attualità) e in cui i reduci di guerra (come l’assassino) si dannano per non aver trovato il martirio.
L’inabissamento nel sottosuolo più oscuro e brutale di Mashhad e della società iraniana si compie con la sequenza d’apertura, che attraverso la routine di una prostituta conduce tra le ombre della città santa, in un ambiente fatto di prostituzione e droga che non siamo abituati a vedere e che viene solitamente tenuto nascosto. È un ingresso nelle tenebre che ammantano la collettività e penetrano l’animo umano, in cui ogni sparuta luce può rivelarsi ingannatrice. La sequenza termina con il primo crimine, con l’assassino ancora avvolto nel mistero che vaga svanendo nella notte. Viene (e fu realmente) soprannominato “killer ragno”, per il modo in cui si finge un cliente delle prostitute per attirarle nella propria ragnatela invisibile. Ma di invisibile c’è solo il riferimento al modus operandi ed è invece tutto evidente e tangibile, rivelato sin dall’inquadratura iniziale del killer che si allontana, che diventa un manifesto dello spirito politico e delle geometrie del film. In piena notte, le luci di Mashhad e dei suoi viali formano nell’immagine quella che sembra proprio una ragnatela (su cui compare in sovrimpressione il titolo), con l’uomo che percorre uno dei fili ritornando verso casa.
Non è solo un riferimento visivo al soprannome dato all’assassino, ma è soprattutto un segno del fatto che non si tratta dell’azione di un singolo uomo, ma di un movimento su una complessa ragnatela che connette l’intera città e l’intero paese, intessuta negli anni da una società in cui l’estremismo religioso e lo sguardo maschilista sono stati introiettati sino a diventare percepibili in ogni strato e in ogni anfratto. Persino le madri rinnegano le proprie figlie brutalmente uccise e gran parte dell’opinione pubblica si trova ad accogliere con benevolenza l’operato del killer. Ecco che tutto in Holy Spider diventa visibile, finanche esibito, dalla violenza alla morte, laddove ormai niente è più dissimulato o apparente e dove anche il mistero (e l’indagine) appartiene soltanto ai personaggi (alla sfera finzionale) e non all’immagine. Proprio per questo non c’è bisogno di celare l’identità dell’assassino, che diventa unicamente un simulacro e che viene mostrato dopo pochi minuti, mentre lo vediamo al lavoro e con la famiglia. Un personaggio connesso alla ragnatela dell’intera società (le telefonate al giornalista, l’animo misogino e violento del poliziotto, la solidarietà della cittadinanza), che uccide per sopprimere pulsioni per lui intollerabili.
Significativo, sempre in quest’ottica, è il modo in cui il “killer ragno” uccide le vittime, strangolandole con il loro velo sui tappeti di casa propria (utilizzati in alcuni casi per avvolgerle e nasconderle). Simboli fortemente identitari diventano così degli strumenti di morte, in particolar modo il tappeto, uno dei manufatti più importanti della cultura iraniana ed espressione della relazione tra Dio e l’uomo e dei valori della collettività. Perché la riflessione riguarda necessariamente il collettivo, la ragnatela, e non il singolo ragno, pronto a essere sostituito.