Un autobus gremito di tifosi bielorussi attraversa il confine per uscire dal Paese. Alla dogana è ribadita l’unica regola: il permesso vale tre giorni, poi si torna a casa. Per Aleksei e Michail, però, è l’occasione perfetta. Approfittando di una pausa alla stazione di servizio si allontanano dal resto del gruppo per farsi caricare da un camion. Quando l’autista gli chiede dove sono diretti, mentre si agitano al ritmo frenetico della musica elettronica riprodotta dall’autoradio, i ragazzi rispondono: a Parigi, a ballare.
Il carattere liberatorio e personalizzante della danza è uno dei temi focali di Disco Boy, opera prima di finzione di Giacomo Abbruzzese, vincitrice del premio al miglior contributo artistico alla 73esima Berlinale per la magnifica fotografia di Heléne Louvart. In fuga dal regime dittatoriale bielorusso, Aleksei e Michail sognano di raggiungere la Francia per costruirsi una nuova vita, nell’illusione romantica di trovare riparo tra le braccia del corrusco Occidente. Ma mentre attraversano un fiume, vagheggiando di vini rosèe e libertà ritrovata, la realtà irrompe brutalmente e Michail perde la vita, investito da una motovedetta tedesca. Aleksei, col cuore colmo di dolore, prosegue il suo viaggio da solo e si arruola nella Légion Étrangère, che permette a chiunque di guadagnare la cittadinanza francese dopo cinque anni di servizio. All’interno della Legione la sua identità passata è cancellata e quella presente appiattita (da Aleksei diventa Alex), e il suo corpo mercenario si fa proprietà dello Stato. Alla figura di Alex is contrappone, dall’altra parte del mondo, quella di Jomo, combattente per l’indipendenza del Delta del Niger, ritratto in una delle primissime scene mentre giace addormentato al limitare del bosco insieme ad altri guerriglieri, quasi a preannunciare la forma onirico-sciamanica nella quale Abbruzzese ha scelto di racchiudere la propria storia.
Se Alex combatte per diventare francese, Jomo lotta per ribadire la sua identità di nigeriano, opponendosi allo sfruttamento delle risorse della sua terra da parte di una compagnia petrolifera straniera. In Disco Boy gli elementi naturali, messi in scena in magnetico contrasto con la colonna sonora electro-house di Vitalic, si fanno confine materiale e metafisico: tra due Paesi in lotta, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il sonno e la veglia. Col volto coperto da un passamontagna, Jomo attraversa le acque del Niger su piccole imbarcazioni seguito dai suoi compagni di lotta proteggendo i confini della sua terra. Le fiamme di un falò lo avvolgono mentre esegue la sua ultima danza con la sorella Udoka, decisa ad abbandonare il villaggio per la grande città. Attraverso Alex e Jomo, quindi, Abbruzzese delinea due identità antitetiche, destinate inevitabilmente a sovrapporsi al momento fatale dello scontro, durante una missione di salvataggio nel cuore di una foresta tropicale che sembra restituire la misticità degli ambienti tanto cari al cinema di Apichatpong Weerasethakul. Alex uccide Jomo, ma eredita la sua anima e il suo occhio destro color dell’ambra.
Nel saggio In Praise of the Dancing Body, Silvia Federici evidenzia il carattere precipuo della danza come strumento di riappropriazione del proprio corpo contro ogni strumento capitalista di controllo e asservimento: tanto il dominio del corpo del lavoratore (o del mercenario in cerca di una nuova patria), quanto la sottomissione delle terre e di quanto esse producono. Durante una missione, un compagno di Jomo gli chiede chi sarebbe diventato se fosse nato tra i bianchi. Il ballerino in un club, risponde l’altro. È proprio in un club, dopo aver abbandonato la Legione Straniera, che finisce il corpo esiliato di Alex, nel quale tumultuano due anime. Qui viene riconosciuto da un compatriota che ha subito lo stesso destino, grazie ad un tatuaggio appartenente alla sua vita precedente. L’orfano bielorusso, abbandonato da quella madre-patria che tante volte sembra malinconicamente rimpiangere, racchiuso in silenziosi primi piani. All’interno del club, finalmente, si ricongiunge con Udoka, che ha cercato per tutta la sera, in una sequenza che ricorda la magistrale chiusura di Beau Travail di Claire Denis. Nello spazio liminale della pista da ballo, si abbandonano ad una danza liberatoria, non più costretta alla cabina di un autocarro. Una danza al tempo ascetica e solenne, che deborda ogni confine spaziale e politico- identitario.