Love Is Not an Orange
I have been here for an eternity and I haven’t seen you in two eternities. Come se fosse un documentario-diario, gli avvenimenti del film Love Is Not an Orange di Otilia Babara (Belgio, Paesi Bassi, Moldavia, Francia, 2022) – vincitore del Premio CEI (Central European Initiative) alla 34esima edizione del Trieste Film Festival – vanno a coprire un arco temporale ben definito e circoscritto, limitato persino negli orari, che parte dall’inizio degli anni Novanta e sfocia nei primi anni del nuovo millennio. Eppure, proprio come nella frase sopra citata dalla madre protagonista, ogni momento famigliare ripreso sembra interessare un’eternità, sospeso e contratto da quell’emozione che solo un’immagine resistente al tempo può suscitare.
In questo suo primo lungometraggio, Otilia Babara delinea un disegno a zig zag tra home movies provenienti da differenti archivi privati per narrare una storia comune a milioni di donne moldave, che per mantenere economicamente la propria famiglia decidono di lasciare gli affetti e la propria terra per trasferirsi nei paesi occidentali d’Europa, in questo caso in Italia, allo scopo di accudire le famiglie altrui come balie o badanti. I videotapes confluiscono in un’unica storia familiare, la cui prospettiva è talmente intima da sembrare il racconto in prima persona della regista. La telecamera diviene l’unica occasione per la madre di seguire e rimanere aggiornata sulla vita quotidiana dei figli, sulla loro crescita e gli avvenimenti importanti: si crea così una corrispondenza per immagini che vede gli sguardi di molteplici e inconsapevoli attori, in particolare quello del marito e poi della figlia adolescente. I vari filmati rimano tra loro e trovano un senso d’ordine grazie ai pensieri voice-over della madre. In questi squarci del quotidiano, il privato fa da sfondo al politico e diviene l’occasione per raccontare un fenomeno sociale più ampio in un Paese alla ricerca della propria identità e stabilità dopo il crollo dell’Unione Sovietica: all’importante fenomeno migratorio femminile si affianca il sogno di un consumismo che viaggia attraverso scatole pieni di oggetti che periodicamente vengono inviati ai cari rimasti in patria.
Se i film di famiglia ritraggono momenti collettivi e conviviali, fotografie in movimento di famiglie unite, nell’opera di Babara raccontano di affetti lontani e spiati; se sono per definizione memorie private realizzate allo scopo di immortalare un momento e creare un ricordo, qui diventano l’unico mezzo a disposizione per costruire e definire il presente e abbozzare il futuro. [Vanessa Mangiavacca]
Dezerteri
Lo Stari Most, il ponte di pietra di Mostar, è stato distrutto il 9 novembre 1993 durante la guerra di Bosnia ed Erzegovina. Una videocamera amatoriale riprendeva il crollo da qualche centinaio di metri.
È proprio sui pixel sgranati della VHS che si apre Dezerteri (Croazia, 2022), l’ultimo documentario di Damir Markovina presentato nel concorso Documentari del 34esimo Trieste Film Festival. Basato sulle lettere che il regista ha ricevuto tra il 1992 e il 1993 dai suoi compagni di liceo, il film è un tentativo delicato ed emotivo di indagare il passato e il presente della città. Voci di donne e uomini adultə rileggono le loro lettere adolescenziali, da chi è rimasto a chi è scappato. Nel frattempo le immagini indagano sulla città di Mostar, e cartoline dei luoghi d’approdo dei profughi – Jesolo, Istanbul, Londra – vengono invase dal tratto di un pennarello nero che, come un fiume nocivo e spaventoso, scorre su di esse.
Il volto dei narratori non viene mai restituito, anzi: il film sembra essere costruito su una svalutazione del potere dell’immagine. “La cosa peggiore”, dice una lettera, “sarebbe tornare a Mostar”. Ma mentre la voce descrive il terrore, l’immagine, nel presente, non è in grado di fare lo stesso: guarda al fiume che scorre sotto al ponte, ai ragazzini che fanno un bagno, al sole che li colpisce. Scruta la possibilità di riconoscersi in quei luoghi, ma sente un’assenza, un vuoto. Questa impossibilità di ricostruire l’orrore e la tristezza evocati dalle parole è ciò che soffoca il regista.
Così, l’immagine si fa testimone evidente di una perdita, uno sguardo sul presente incapace di ritrovare le tracce. E lo stesso sentimento lo evocano le parole scritte su carta, ritagliate dalle lettere, esposte ai nostri occhi. Che significato hanno quei segni per il regista, ragazzino che nel ’92 li riceveva a migliaia di chilometri di distanza? Un compagno è morto; mio padre ha perso un occhio; il ponte è caduto. Cosa significano queste parole non vissute? Dado, così lo chiamano gli amici, non risponde mai. E, come lui, nemmeno le immagini. Markovina cerca una risposta ma non la trova. Vorrebbe darla ora, ma gli spazi sono vuoti, inafferrabili; non dicono niente del passato, non lo aiutano.
“Non è rimasto niente, se non questo dolore e quest’amarezza che ci portiamo dentro. E i ricordi.”, dice una compagna. Il pennarello nero copre interamente una cartolina dello Stari Most, e le foto dei giorni prima della guerra conservate nei cassetti scorrono nel silenzio pneumatico verso la fine del film. [Emanuele Tresca]
Sigurno mjesto
“Se nulla di tutto questo fosse successo, adesso ti direi: guarda, questa è casa tua, conta fino a venti e io entrerò in scena di corsa”. Davanti a una palazzina di Zagabria due bambini fanno volare un piccolo giocattolo colorato. Qualche metro più in là, mentre un cane a passeggio si allontana dal padrone, un signore rientra dalla spesa con una busta di plastica tra le mani. Sono trascorsi venti secondi: un uomo irrompe in questo quadro di vita quotidiana e inizia a citofonare all’impazzata e a calciare una porta. La quiete è stata rotta, per lui e per noi, e il film comincia.
L’incipit con cui si apre Sigurno mjesto (Croazia, Slovenia, 2022) – straziante esordio del croato Juraj Lerotić pluripremiato alla 75ª edizione del Festival di Locarno e menzione speciale al 34° Trieste Film Festival – disegna la linea tra realismo e messa in scena attorno alla quale si dispiega il racconto delle ultime 24 ore di Damir e del suo disperato bisogno di mettere fine alla propria vita. Un racconto che attinge direttamente dall’esperienza personale del regista, anche interprete di sé stesso nella rielaborazione della morte del fratello.
Dopo il tentato suicidio di Damir, per scongiurare che ciò accada di nuovo, il fratello Bruno e la madre si ritrovano costretti a intraprendere una corsa contro il tempo e contro un sistema corrotto impersonato da poliziotti indisposti e medici fantocci. Un sistema che subappalta la sofferenza ai singoli, facendo credere loro di essere gli unici responsabili del proprio malessere, e nel quale l’epilogo di questa storia non può che essere la definitiva rinuncia alla vita. Lerotić di questo fa un’aperta denuncia, in un momento topico in cui regista e alter-ego filmico si ricongiungono per parlare al fratello morto. “Abbiamo denunciato l’ospedale. E i nomi dei medici, in questo film, non li ho voluti cambiare”, confessa Bruno/Juraj a Damir.
Lerotić, così, non si limita a rappresentare il concatenarsi degli eventi che hanno caratterizzato un trauma privato. Con lucidità, iscritta in immagini soffocate da quinte di muri e simmetrie alienanti, riesce a far sconfinare nel pubblico il racconto della tragedia. La fissità delle inquadrature e il formato 5:3 descrivono il senso di oppressione e immobilità di cui Bruno e sua madre si ritrovano vittime. La ricerca ostinata del “posto sicuro” per Damir, ostacolata da chiunque incontrino, è cadenzata da una frenesia di corpi e parole, mai di movimento – complice un ritmo volutamente lento che si oppone alla sovrabbondanza di eventi concentrati in un ridottissimo arco temporale. Un’ambivalenza capace di restituire allo spettatore lo stesso senso di straniamento dei protagonisti.
Contrariamente a una narrazione più tradizionale e talvolta romanticizzata, in Sigurno Mjesto l’atto del suicidio precipita dal nulla, la malattia è fulminea, la morte è fattore estraneo e indecifrabile. Il risultato è un racconto straziante e autentico, ancor più grazie alla scelta del regista di irrompere nella finzione per creare uno spazio di intimità con il fratello, ricordandoci che il cinema a volte serve a questo: a rappresentare la realtà così com’è. A riportare l’attenzione sulle nostre vite e sui nostri affetti. A ricordarci che, in fin dei conti, è fuori dalla sala dove tutto veramente accade, e dove tutto può andar male. [Emanuela Ornaghi]