A dieci anni da L’enfant d’en haut, vincitore nel 2012 di una menzione speciale alla Berlinale, la regista svizzera Ursula Meier presenta il suo nuovo lungometraggio, La Ligne, distribuito in Italia da Satine Film. Come dichiarava al tempo del riconoscimento, il carattere “marginale” di tale premio si addiceva perfettamente ai protagonisti del suo film, una giovane madre e un figlio che vivono come reietti ai piedi di un impianto sciistico sulle montagne svizzere, fingendosi fratello e sorella e rubando attrezzature ai turisti per sostentarsi. Tale considerazione valeva anche per il suo primo lungometraggio, Home, in cui la quotidianità di una famiglia è minacciata dalla riapertura dell’autostrada accanto alla quale sorge la loro abitazione, unico insediamento umano all’interno di una grande area rurale. L’ineluttabilità della riapertura, destinata a rendere tragicamente inospitale l’ambiente domestico, è appesantita dall’indifferenza di un mondo esterno che prosegue il suo corso con freddezza, e mentre impersonali addetti dell’autostrada sgomberano la carreggiata dagli averi della famiglia, automobilisti noncuranti ne devastano il giardino con gas di scarico e rifiuti.
La ricorrenza di nuclei familiari atipici e dimore situate geograficamente ai margini è tematica all’interno di un discorso sul ruolo degli individui nei sistemi relazionali e negli spazi che abitano. Ne L’enfant d’en haut Simon, al termine della stagione sciistica e in seguito all’allontanamento della madre, si riappropria degli impianti deserti e privi di neve, unico luogo dove è riuscito a sentirsi in qualche modo amato da una madre surrogata, trasfigurando l’inospitale ambiente montano in quella che sembra essere la sua unica dimora possibile. Se dove c’è famiglia c’è casa, nei film di Meier uno dei due elementi viene sistematicamente a mancare e si dispiega metaforicamente nello spazio la crudele complessità delle dinamiche relazionali.
La Ligne prosegue e potenzia il discorso servendosi del tratto di separazione per antonomasia come immagine di un legame affettivo mutilato. Margaret, musicista trentenne dalla personalità violenta, in seguito a un’aggressione ai danni della madre ex pianista e figura genitoriale assente, viene allontanata dall’ambiente domestico con un’ordinanza restrittiva. Una linea di vernice viene allora tracciata sul terreno, ergendo una barriera fisica che innesca nella donna un’incessante e tormentata ricerca di avvicinamento. La presenza di un confine polarizzante oltre (o dentro) al quale i personaggi sono magneticamente attratti si conferma chiave d’accesso, qui fin troppo esplicitata, all’universo psicologico dei protagonisti. Dentro e fuori da una casa, in cima o ai piedi di una montagna, la tensione spaziale illumina la direzione emotiva, smentendo una rappresentazione umana a primo acchito glaciale e nichilista.
Ma se la dialettica spaziale resta forte anche in questo film, dove alla linea artificiale sono aggiunte barriere naturali come un fiume, una ferrovia o le stesse montagne svizzere che incorniciano claustrofobicamente la narrazione, i personaggi sembrano questa volta risentire dell’universo compresso in cui gravitano rimanendo atrofizzati sul versante emotivo. La madre narcisista interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, la cui sordità affettiva è simbolicamente vendicata dall’incidente con Margaret che le fa perdere l’udito, è un personaggio funzionalmente freddo e antipatico ma che appare privo della sincera fragilità che caratterizzava la madre (apparentemente ben più disumana) interpretata da Léa Seidoux ne L’enfant d’en haut. Analogamente, la sorellastra undicenne Marion, introversa e fragile figura redentrice che si arroga il compito di ricostruire i frammenti della deflagrazione domestica, manca della solidità un po’ disorientante dei ragazzini-adulti dei film precedenti, Simon in L’enfant d’en haut e l’omonima Marion di Home, costretti a strappare le redini della famiglia dalle mani di adulti inadeguati. Infine, la tensione che si instaura tra la repressione e le esplosioni di violenza della stessa Margaret, interpretata da Stéphanie Blanchoud, anche co-sceneggiatrice, si traduce spesso in uno scivolamento oltre il grottesco, finora sempre aggirato da Meier.
Con La Ligne Ursula Meier conferma tuttavia l’importanza di uno sguardo che si interroga sul concetto dei ruoli all’interno dell’infrastruttura familiare, problematizzando e legittimando modelli stigmatizzati, con prevalente attenzione a quelli femminili, facendo invertire di posto madri, figlie e sorelle che nei suoi film appaiono sempre straordinariamente libere da sensi di colpa nell’evasione dalle costrizioni sociali. La sua forza, però, emerge ancora una volta nella scrittura dello spazio, con la quale è in grado di tracciare la dimensione interiore in cui emergono le linee (in)visibili al cui superamento tende l’umanità che mette in scena.