Qualche anno fa il regista di Tre manifesti a Ebbing, Missouri aveva fatto colpo su tanti consegnando uno script che dava spazio ad un soggetto tanto dark quanto ironico, riuscendo a non sfiorare mai la parodia nella rappresentazione del dolore e dell’insensatezza umana, semmai solo la litania.
Martin McDonagh riconferma una spiccata tendenza per temi universali e mistici – resi, si potrebbe dire, in maniera drammaturgica – e per la cinica riduzione dei suoi personaggi ad esseri dalla personalità monocorde, portando questa volta una storia d’amicizia declinata al maschile, eccedendone però i convenzionali parametri. The Banshees of Inisherin, o il più esoterico Gli Spiriti dell’Isola nella sua versione italiana, è una storia variegata di ignoranza, noia, indignazione e stupidità, un totale rigetto davanti all’impoverimento delle idee e alla povertà di tempo. Quindi forse no, non è una semplice storia d’amicizia, e poi appunto del suo rigetto. Questo è un rigetto più ampio, che afferiamo per sottotesti fuori dal tempo, come il film stesso, che è solo vagamente databile con coordinate storiche – lo scenario della guerra civile irlandese è uno sfondo remoto. Fuori dal tempo ma dentro ad uno spazio: vedute lunghe e collinose, che si squarciano su orizzonti infiammati dal sole o tagliati dal vento e dalle onde, ospitano angosce e vicende tutte umane. L’isola del film è immaginaria, eppure assolutamente realistica nelle sue dinamiche interne, nel suo paesaggio sfacciato e aguzzo e nelle allegorie che sottende. Battute forse cosmiche ancor prima che comiche riflettono l’ansietà dell’essere ricordati per il nostro creato, nonché della preziosità del tempo a nostra disposizione a tal fine, ma anche il terrore della mediocrità, della medietà dell’esistenza.
The Banshees of Inisherin ha la forma di una brutale favola nordica, eppure di una gentilezza e candore rari, che riflette sulla biunivoca importanza/insensatezza del proprio lascito, così come anche sulle piccolezze/grandezze degli uomini, delle loro relazioni. Il film risulta tragicomico e beckettiano nella sua recursiva stasi, ma anche profondamente imbarazzante: noi spettatori proviamo esattamente lo stesso imbarazzo che prova Pádraic (Colin Farrell) davanti alla decisione irrevocabile dell’amico Colm (Brendan Geeson) di interrompere il loro rapporto d’amicizia. L’imbarazzo sta nell’esplicitazione di una simile decisione, nell’assenza di ritegno, ma anche nella sua inappuntabilità, nell’onestà. Pádraic non vale il tempo di Colm, è un uomo giusto, ma la sola rettitudine frutta ben poco nello scambio interpersonale. E noi valiamo il tempo altrui? E chi vale il davvero nostro? L’imbarazzo nasce precisamente dalla risoluzione di questo dubbio.
The Banshees è poi un’opera altamente spirituale, nel senso deleuziano del termine. Gilles Deleuze intende la spiritualità come la scelta di scegliere tra due modalità di esistenza: la scelta è dunque determinazione spirituale. Colm elegge l’arte della musica come valuta del tempo che gli rimane sull’isola degli spiriti – ma sarebbe potuta essere qualsiasi altra cosa – e scarta un’altra modalità d’esistenza, quella della vacua interazione sociale. Pádraic, dal canto suo, annega nella più completa non accettazione della negazione che gli viene imposta: allora il film fin dal principio è un corto circuito, una progressione emotiva – non narrativa! – insieme nevrotica e parossistica. È impasse.