“The wrong things are kept private in our society and it destroys people”
Nel 2019 la National Portrait Gallery di Londra rifiuta una donazione da 1.8 milioni di dollari da parte della famiglia Sackler. Storici filantropi e collezionisti d’arte, i Sackler sono proprietari della Purdue Pharma LP, azienda che produce e distribuisce OxyContin, un analgesico oppioide comunemente prescritto in caso di interventi o malattie gravi che ogni anno porta alla dipendenza e morte per overdose centinaia di migliaia di statunitensi. Varie sono le pressioni dal mondo dell’arte che inducono a tale scelta: prime fra tutte quella della fotografa e artista (nonché sopravvissuta a un’overdose da Oxycotin) Nan Goldin, che minaccia di ritirare le proprie opere dalla galleria. È la prima vittoria del gruppo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), fondato nel 2017 da Goldin stessa, che scatena una reazione a catena di boicottaggi ai Sackler da parte dei più importanti musei occidentali culminati nella rimozione del nome dell’azienda dal Louvre.
All the Beauty and the Bloodshed nasce nel segno della collaborazione tra la regista Laura Poitras e l’artista e fotografa Nan Goldin allo scopo di esporre il coinvolgimento e la responsabilità del mondo dell’arte nell’epidemia degli oppioidi. La posizione dell’artista verso il sistema contro cui sta lottando produce un’angolazione inedita sul problema dell’epidemia degli oppioidi, ampiamente discusso e parte centrale del dibattito sulla stato attuale della sanità nordamericana. Ma tale forza narrativa non viene sfruttata nella composizione di una storia eroica e lineare o, come potrebbe sembrare ad un primo sguardo, semplicemente biografica, bensì nello svelamento ed evocazione di un’archeologia di significati e possibilità, di una pratica e di un processo. Come sottolinea la voce fuori campo di Nan Goldin all’inizio del film “non si può raccontare un ricordo. Le storie non sono in grado di raccontare i ricordi, perché eseguono necessariamente un atto di semplificazione che verte al lieto fine. Mentre le memorie sono sporche, e hanno un cattivo odore”.
Così il demone interiore di Goldin, l’impossibilità di mantenere in vita le persone a lei care se non con un’istantanea, diventa la premessa registica di verità con cui Poitras riesce a creare un documentario capace di andare oltre la denuncia sociale per mettere in discussione i termini stessi del discourse contemporaneo riguardo cosa s’intenda per “pratica di cura”. Riprendendo scelte formali e contenuti fotografici da I’ll Be Your Mirror di Goldin e David Armstrong, le sequenze sulla biografia dell’artista sono guidate da un’intervista in cui la sua stessa voce espone con lucidità i momenti fondanti della sua vita e del suo percorso artistico (informandosi a vicenda). L’intimità del dialogo che si instaura tra intervistatrice e intervistata è fedele alla pratica artistica di Goldin stessa, alla ricerca di un’esposizione libera del soggetto per mezzo di un rapporto di fiducia, scambio e cura. Nan Goldin fotografava i suoi amici – le queens che avrebbe voluto portare sulle copertine di Vogue – e successivamente permetteva loro di appropriarsi delle istantanee, conservare le preferite e stracciare quelle in cui non si piacevano. Gli slideshow erano veri e propri eventi all’interno della comunità queer newyorkese: davanti alle immagini proiettate si ballava, si applaudiva, si contestava. Le fotografie venivano cambiate e riarrangiate – il soggetto della fotografia era parte del processo artistico, artista stesso, dall’inizio alla fine.
L’urgenza delle azioni politiche del gruppo PAIN, cascate di finte prescrizioni macchiate di liquido rosso che coprono i corpi inermi degli attivisti nel Guggenheim o repliche di boccette di Oxycotin lanciate attorno al Tempio di Dendur del Metropolitan, emerge nel riuscire a liberarsi dalla logica della società dell’immagine, del racconto a lieto fine incapsulato in un hashtag, grazie alla consapevolezza artistica dell’opera di Goldin e del suo attivismo. L’esposizione (nel senso di “expose vs exhibit”) è il tema politico centrale nelle sue fotografie, contro il silenziamento del mantra “don’t let the neighboors know” dell’America suburbana da cui Goldin scappa in seguito al suicidio della sorella Barbara, capace di vedere attraverso il silenzio dei genitori: “visions of the future and all the beauty and the bloodshed”. L’esposizione dell’assurdo di un atto di cura sistematicamente mancato e insabbiato. Come fu per la costrizione/costruzione sociale del “feminine mystique” e della famiglia nucleare, gli asylum degli anni ’60, la violenza di genere e l’epidemia di AIDS degli anni ’70 e ’80. Momenti della storia degli Stati Uniti che l’artista ha attraversato in prima persona esponendone il sangue versato, ma prima di tutto la bellezza degli atti di cura.
Montando in parallelo i due racconti, da un lato il resoconto biografico dell’artista e dall’altro il reportage del suo recente attivismo con il gruppo PAIN, Poitras rinuncia all’investigazione minuziosa del “caso” Sackler, tipica dei suoi lavori precedenti, e accompagna lo spettatore verso una consapevolezza storica del significato di politica della cura e in ultima analisi di tale consapevolezza come unica modalità possibile di creare arte politica.
Unico documentario in concorso a Venezia 79, All the Beauty and the Bloodshed si aggiudica il Leone d’Oro, una scelta sorprendente quanto interessante. Il film accosta due forme che potremmo definire classiche all’interno del genere documentaristico, presentando un’avanguardia piuttosto nella capacità di responsabilizzare il pubblico e fuggendo una narrazione didattica o programmatica. Un manifesto del “non dire ma mostrare” che si dispiega nella pratica più che nella sintesi. I lavori di Goldin sono presentati sotto forma di slideshow, il contenente preferito dall’artista stessa e che con un po’ di licenza poetica possiamo definire provocatorio: forse le opere di Goldin, sono meglio esposte in un film che sulle pareti di musei che ancora non si assumono del tutto la responsabilità delle carenze etiche del mondo dell’arte.
Poitras si mette in qualche modo da parte e lascia alla materia e al soggetto la possibilità di essere liberi e di portare la loro verità. Possiamo comprendere il successo di questo film come rappresentativo di un filo rosso che sembra legare i titoli più coraggiosi in mostra a Venezia nel 2022, come Saint Omer di Alice Diop o Blanquita di Fernando Guzzoni, ovvero la decostruzione e messa in discussione di una definizione formale di verità accettate: cosa significa curare così come cosa significa essere madre o fornire falsa testimonianza, verso la presentazione di un realtà più complessa e necessariamente più umana.