All’interno di un’unica scena ve ne esistono infinite altre, tutte connesse tra loro ma, anche e soprattutto, in dialogo con il fuori campo. E se ciò è vero per un qualsiasi quadro estrapolato da un racconto, in Nest (2022), il nuovo cortometraggio di Hlynur Palmason, caratterizzato dall’avvalersi della medesima inquadratura per ogni sequenza del film, questo concetto diviene ben presto ancor più rilevante. Tre fratelli, due maschi e una femmina, interpretati dagli stessi figli dell’autore, trascorrono un anno a costruire una casa su una pertica. Le loro vite e quella dell’abitazione mutano parallelamente davanti allo sguardo immobile dello spettatore.
Nei primi cortometraggi del regista, En dag eller to (2012) e En Maler (2013), la forma narrativa prevedeva a un certo punto una rottura, dei cambi inaspettati che mettessero in discussione la coerenza dialettica fino a quel momento utilizzata. Qui invece non vi è alcun imprevisto, il film è rigore puro e riconosce perciò un’unica porzione del mondo possibile – non funge da finestra bensì da specchio. O meglio, è metaforicamente entrambe le cose: una sorta di vetro semiriflettente che consente al pubblico di guardare dentro, e al regista di rispecchiarsi in esso. La pertica, posizionata esattamente al centro dell’inquadratura è specchio dell’occhio filmico e, allo stesso tempo, simbolo rappresentante una delle tematiche care a quest’ultimo, ovvero, la ricerca delle proprie radici.
La filmografia di Palmason si compone di personaggi che si sono spostati dall’Islanda e che a un certo punto faranno i conti con questo allontanamento. In Nest tale concetto è mostrato proprio attraverso la pertica, che posa le sue radici dentro il suolo islandese, ma che con il corpo oltrepassa l’inquadratura, creando un ponte verticale che testimonia la doppia appartenenza culturale dell’autore (egli è nato in Islanda ma è cresciuto in Danimarca). Nei primi minuti tale giuntura verrà spezzata per concedere ai lavoratori di fabbricare la base su cui poi poggerà la casa, dichiarando perciò la volontà del regista di concentrarsi sul proprio luogo natio. Inizialmente vediamo uno spazio vuoto, abitato da un qualcosa che può definirsi casa solo in potenza. Ed è qui che si instaura un interessante meccanismo narrativo: sono i figli a “ricostruire” la dimora e non l’autore, il padre. Se idealmente sono sempre stati i genitori ad erigere un focolare per i propri eredi, qui avviene il contrario, ed è tramite questi ultimi che l’artista giunge dunque a immaginare nuovamente una casa, un nido.
Le radici crescono e dall’”albero” spuntano finalmente i rami che lo rendono abitabile. Queste diramazioni simboliche, assieme ai vari elementi che entrano ed escono dal quadro, ci permettono di pensare un altrove. “Spesso dico che un albero non cresce solo verso l’alto, ma anche ai lati. In quanto artista sei obbligato a seguire lo sviluppo dei rami, anche se non sai se sia importante farlo. Non so se ha molto senso ciò che dirò ma… Cos’è un albero senza rami?”, si chiede il regista. Questa affermazione del 2020, letta a posteriori e riferita a questo cortometraggio, potrebbe risultare contraddittoria visto il rifiuto al voler guardare da altre parti, e invece fa perfettamente da varco per permetterci di intercettare quello che poi sarà Godland (2022), suo ultimo lungometraggio in cui si narra del viaggio di un prete danese verso l’Islanda più impervia e che, guarda a caso, porterà con sé un treppiede e una macchina fotografica.
E dunque ecco che questo cortometraggio diviene una sorta di messa in discussione necessaria per poter andare avanti, una parentesi riflessiva che rinnega volutamente il suo modo di fare, per poi ricongiungersene più avanti. Un film tanto metacinematografico quanto intimo, che riflette sul proprio cinema e che non si imbarazza nel mostrare le sue fragilità, lasciandosi guidare dai figli per la (ri)comparsa del riflesso iniziale. Nest anticipa quindi il proprio fuori campo negato per poi materializzarlo solo in Godland. Dove prima vi era un palo al centro ora vi sono anche delle funi ai lati, delle “gambe” poggiate sul terreno su cui sovrapporre il nido. Non è forse questa un’immagine che restituisce meglio il riflesso di una camera su di un cavalletto? Ora si è nuovamente pronti per ripercorrere i rami.