Che l’amicizia sia un luogo dove piantare radici lo sanno bene Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Loro, che prima d’ora erano apparsi insieme sullo schermo una sola volta e anche quella volta erano compagni, hanno imparato sulla loro pelle quanto un’amicizia possa cambiare la vita o quantomeno rivelare un talento. Da Non essere cattivo in poi i loro volti si sono allontanati ma i loro nomi hanno insistito a chiamarsi a vicenda. Raramente nei commenti del pubblico, per contrasto o comunanza, il nome di uno non segue o precede il nome dell’altro, come se a dirne uno soltanto si facesse torto al secondo e allora ci si affrettasse a rimediare, comprendendo entrambi nel discorso proprio al modo che si riserva a una coppia di amici inseparabili. Un film come Le otto montagne, tratto dal romanzo di Paolo Cognetti e diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, prima ancora che parlare di Pietro e Bruno rinsalda il mito contemporaneo che unisce Marinelli a Borghi, il loro misterioso ritrovarsi in una stessa inquadratura e il fascino – uno dei pochi nostrani ormai davvero seducenti – che i loro corpi attoriali vicini, i loro sguardi intrecciati, esercitano sul cinema italiano e i suoi spettatori.
Se nel film di Caligari il mondo d’origine dei due protagonisti era lo stesso e il conflitto si innescava a partire dalla diversa maniera con cui essi mostravano di reagirvi, in Le otto montagne lo scarto tra Pietro e Bruno è subito dato e per sempre incolmabile. Figlio della città e della borghesia uno, figlio della selvaggia montagna l’altro, si conoscono per caso a undici anni e per altri venti si perdono. Una morte improvvisa li ricongiunge, ormai uomini, e il sentimento nato da bambini torna a stringerli, tra le intermittenze dell’età adulta e sensi di colpa inconfessati. I loro sentieri si intersecano di nuovo, i loro passi ricordano le affannose corse di un tempo e le loro voci, chi in vetta chi a valle, gridano al cielo il nome dell’altro. L’amicizia è un luogo dove piantare radici, è vero, eppure da quel luogo arriva il momento per tutti di saltare un salto solitario. Ognuno ha i suoi precipizi da scavalcare: il dramma è che prima si salta e poi ci si volta indietro, a controllare se chi è amico è saltato anche lui, atterrato sano e salvo, oppure è rimasto intrappolato, smarrito nella tormenta. Le otto montagne è il racconto di cosa accade prima e dopo questo salto, del ghiacciaio e del sole che lo scioglie, di quel che nel volo il tempo si porta via e di quel che lascia tra le dita.
Fin dai nomi dei due amici, così virili e austeri, tra le pieghe di barbe incolte e inquieti silenzi, il film conserva il cuore del romanzo svelando il carattere profondamente maschile della sua storia. Della mascolinità la relazione tra Pietro e Bruno porta i segni dell’insufficienza, gli slanci infantili e le voragini. Non è un caso se il frangente di massimo avvicinamento tra i due uomini coincida con un atto pratico e faticoso – la costruzione di una casa, il sollevare su da macerie – mentre le parole sembrano di continuo separarli, girare a vuoto, spezzarsi tra risa ubriache o cadere nelle ceneri di un falò notturno. Trovare le proprie parole e grazie a queste accamparsi, scovare rifugi, è un mestiere che al maschile non si insegna. Almeno non lo hanno insegnato a Pietro e Bruno i loro padri, figure assenti e ingombranti, vetri di uno stesso specchio incrinato. Consapevoli della fragile materia che hanno tra le mani – d’altronde come trasporre in immagini l’ineluttabile appartenenza tra due persone? – Van Groeningen e Vandermeersch affidano alla montagna il respiro del loro film, così come alcuni mitici innamorati si dice sussurrassero al tronco di un albero il nome dell’amata in modo da custodire il segreto e beneficare il desiderio. Dalle interpretazioni degli attori, sommesse anche negli attimi d’ira, al lento susseguirsi di partenze e ritorni, tutto in Le otto montagne richiama il fluire delle stagioni, il ciclo che dall’inverno conduce all’estate, dalla neve al fango e da questo al fiore, in una ripetizione che opprime o libera, a seconda delle parole che si sono trovate nel frattempo. Quelle di Pietro e Bruno non si sono mai assomigliate, eppure la semplice bellezza del film sta nel tracciare la geografia emotiva dei loro tentativi di incontrarsi a metà strada, quando i cammini si divaricano in maniera irreparabile ma le braccia, tese una verso l’altra, si sfiorano ancora. Vieni qui adesso/ meglio venire in fretta/ vieni qui/ finché duriamo io e te, canta Daniel Norgren in un’eco tramortente. Durare come le montagne, amare come gli umani, altro non è lecito sperare.