Partendo dalle immagini surreali di un evento straordinario e misterioso, l’invasione di falene della campagna del sud della Francia nel 2016, con Pyrale Roxanne Gaucherand costruisce un racconto ibrido e metamorfico sulla natura sfuggente del desiderio.
Le falene, come una strana coltre di neve argentata in piena estate, attraversano i campi, si infilano nelle abitazioni e sconvolgono l’altrimenti monotona esistenza di una cittadina del Drôme-Ardèche, dove Lou e Sam passano l’estate. Le due ragazze, amiche d’infanzia, vivono giorni di attesa, alla ricerca dei segni dell’imminente invasione che altro non è che un pretesto per starsi vicine, nella lenta scoperta di un sentimento a cui non osano dare un nome.
L’operosità degli abitanti, che inventano nuovi stratagemmi per scacciare gli insetti e preservare così l’integrità del paesaggio, trova un contraltare ben più sotteso nel tentativo di Lou di resistere al suo stesso desiderio, altrettanto infestante e inaspettato. Lo smarrimento di fronte all’attrazione che la spinge verso Sam, come le piccole falene che abbagliate dai lampioni vi si schiantano contro, porta già il sapore della malinconia. Ogni giorno azzurro-violaceo dell’estate ha in sé l’essenza del ricordo, in una continua decomposizione del presente amplificata dalla distruzione dei luoghi d’infanzia da parte delle falene.
L’estetica visionaria di Pyrale unisce insieme lirismo e iperrealismo pop, in una singolare mescolanza di elementi documentari e found footage proveniente da internet con la finzione del coming of age. Il risultato è un’esperienza visiva la cui bellezza sensuale svela una dimensione intrinseca parassitaria e devastante. Seguendo un ritmo crescente di tensione, il film si immerge nelle dolci e inquiete lande del desiderio, per scoprire lo splendore della sua natura effimera.
Intervistiamo la regista in occasione di una serata dedicata dalla rassegna Indocili al suo lavoro.
Pensi a Pyrale più come a un documentario o a un film di finzione? Cosa ti spinge a passare dal documentare fatti reali, come l’invasione delle falene, a costruire una fiction?
Le radici del mio lavoro affondano nel documentario, ma il mio desiderio era quello di arrivare a girare un film di finzione. L’ho capito davvero da poco, perché sto girando un nuovo progetto con la stessa “ricetta”. Prima ancora di aver scritto qualsiasi cosa, cerco elementi di documentario anche se so che quello che voglio fare è fiction. Mi rassicura confrontarmi con un’area geografica e con le persone che la abitano, per creare qualcosa di autentico che dia una lettura di cose che esistono già. Forse è mancanza di sicurezza, forse è perché amo entrare a contatto con le persone che filmo e testimoniare il loro modo di vivere nei film. C’è anche l’aspetto economico, lavorare con il documentario è molto meno dispendioso ed è un processo che ti lascia molto libera durante la fase di scrittura, non hai bisogno di tante reference, le trovi mentre osservi: è come un’investigazione, ed è molto divertente collezionare immagini e poi creare le connessioni in un secondo momento, anche tra cose che prima non sembravano avercele.
La prima volta che ho visto Pyrale non avevo mai visto Phenomena di Dario Argento. Rivedendo il tuo film ora ho trovato delle affinità tra i due, tu l’hai mai visto?
Ci sono sicuramente delle connessioni, la cosa divertente è che il suggerimento di vedere Phenomena è arrivato dopo che la persona in questione aveva visto delle immagini delle prime riprese di Pyrale. Avere molti riferimenti è una di quelle cose che cerco per sapere che sto prendendo una strada giusta come regista, per avere una sicurezza maggiore.
La questione della sicurezza sembra interessare di più le registe dei loro colleghi uomini..
Sì, ma penso sia anche un vantaggio, perché dà vita a un modo complesso di creare e di esprimersi.
Il luogo delle vicende di Pyrale è quello della tua infanzia. Quando hai sentito dello strano fenomeno che lo stava interessando, come ha preso vita il progetto del film? Avete girato mentre era in atto o lo avete ricreato?
Abbiamo girato per tre estati consecutive: la prima è stata per il first cutting, durante la seconda abbiamo effettivamente dato la caccia alle farfalle, perché la loro presenza era casuale e apparivano in prossimità degli alberi, che stavano scomparendo velocemente. Abbiamo girato delle scene ambigue, che potessero essere sia fiction che documentario, e poi la terza estate siamo andati sempre durante la stagione delle falene, concentrandoci di più sulle scene di fiction, e ottenendo alcune delle parti che mancavano al film.
E gli attori sono arrivati solo nella terza estate?
In realtà sono venuti dalle primissime riprese, ma inizialmente anche con loro abbiamo girato delle scene aperte, perché non eravamo sicuri di avere abbastanza soldi per girare l’estate successiva. L’ultima scena in realtà è girata nel corso di tre estati, le protagoniste ovviamente hanno lo stesso outfit, ma erano anni diversi.
Quando il film era ancora solamente nella teoria, quand’è che hai capito che poteva funzionare questo collegamento tra un amore estivo tra due adolescenti, e una bellissima e pericolosa invasione di insetti?
All’inizio l’invasione di falene mi ha toccato perché stava modificando un paesaggio a cui ero davvero legata, quindi il primo sentimento è stato questo. L’altro tema che mi interessava esplorare nel mio lavoro era quello della rappresentazione LGBTQ, dato che mi ricordo di essere cresciuta senza alcun riferimento quando ero adolescente. Era un retro pensiero che era presente nella mia mente da tempo. Poi, lavorando al film, ho buttato giù tutte le metafore possibili intorno alle falene e all’invasione, sviluppando diversi livelli di storytelling. Questo lascia lo spettatore libero di scegliere quale preferisce, mi piace questo tipo di film che cercano di portare avanti più metafore possibili fino alla fine. Certo, quella delle farfalle e dell’amore era abbastanza ovvia, quindi è stato un bene seguire quella strada.
Forse puoi dire che sia ovvio, ma io invece trovo che ci sia qualcosa di inaspettato in questa connessione. Il senso di attesa che sottende il film traduce un disagio quasi fisico, una sensazione molto precisa legata all’adolescenza.
Sì, è una rappresentazione molto specifica e riconoscibile per la comunità LGBTQ, ma ha sicuramente una portata universale nel voler raccontare quel turbamento che caratterizza l’adolescenza per tutti. Ho questo desiderio di raccontare storie d’amore.
Una cosa che mi ha sorpreso è che il tuo sguardo sull’adolescenza non è mai nostalgico, come spesso accade. Ho avuto la sensazione che tu sia ancora molto in contatto con la versione adolescente di te, come se foste in una relazione ancora aperta.
Sono contenta che non l’hai trovato nostalgico, perché mi impegno molto a non essere quel tipo di persona. La storia della protagonista nel film è un mix tra la storia dell’attrice che la interpreta, che è la sorella della mia migliore amica, e le nostre diverse storie d’amore, di un gruppo di amiche. Più che un’operazione di nostalgia verso un tempo passato è infatti il tentativo di testimoniare l’esperienza vissuta da ognuna di noi. Onorare quei luoghi, quelle persone, è stato il motivo per cui ero felice di riprenderli, anche quando si tratta di posti apparentemente random ma che hanno un gran significato per chi vi è cresciuto. Sono interessata al modo in cui vengono rappresentati i teenager in televisione e al cinema, la trovo una fase di vita interessante perché è la prima volta che cominci a guardare il mondo per com’è, e questo già di per sé è un buon punto di vista da cui raccontare una storia.
All’inizio segui Lou da vicino, con primissimi piani che sembrano voler cogliere i suoi pensieri e le sue sensazioni. Da un certo punto in poi la lasci andare, e la osservi da una distanza maggiore.
Il fatto di essere a metà tra documentario e fiction ha creato in me il desiderio di stare a una certa distanza per lasciare che le cose fossero aperte e per non forzare troppo le situazioni, anche perché non avevamo a che fare con attrici professioniste. E anche perché i teenager sono spesso rappresentati come degli esseri sempre arrapati, ipersessualizzati, e per quello che mi ricordo c’era molto questo aspetto ma anche moltissima goffaggine e imbarazzo, che volevo ricordare alle persone.
Come hai fatto a collezionare tante storie nella fase di scrittura?
All’inizio abbiamo collezionato informazioni di carattere scientifico riguardo all’invasione, abbiamo viaggiato ascoltando le storie delle persone attraverso le loro parole, quindi raccogliendo anche credenze e dicerie che circolavano quando non si conosceva la natura del fenomeno. Volevo riscrivere poi tutto quello che avevo raccolto e calarlo in una storia, in modo che non fossero più solo interviste frontali. La maggior parte delle informazioni riguardo al fenomeno vengono raccontate all’inizio dalla voce di Lou, nel montaggio finale del film abbiamo conservato solo le testimonianze di quelle persone che avevano un punto di vista molto specifico sulla vicenda delle falene. Come quella dei miei nonni che guardano con il binocolo, mentre abbiamo ricreato alcune scene di cose che sapevo facevano quando io non c’ero. Loro vivono lì. Avevo una grande libertà di scrittura grazie ai produttori e al mio montatore, giravo delle scene che poi si incastravano e in una versione del montaggio c’erano varie parti in cui c’era solo scritto “this scene is missing”. Poi abbiamo riempito lo scheletro con le scene che ci servivano. È come un puzzle, amo questo modo di scrivere.
Lavorare con gli insetti dà una certa incertezza alle riprese, avevate un modo per attirarli?
All’inizio è stata una bella sfida, abbiamo capito da subito che erano attratte dalle luci e che non avevano paura di noi, ce le avevamo addosso, in faccia, dappertutto. Questo ha fatto di loro delle attrici perfette. L’unica cosa difficile era capire dove si sarebbero spostate, e abbiamo lasciato il nostro numero a tante persone che ci chiamavano per dire “ce le abbiamo qui”, e noi correvamo loro dietro. Sono facili da catturare, e adesso sono diventata più amichevole con gli insetti. È stato bello partire da questi punti di vista più ristretti, che ti costringono a una scelta, come quella di seguire le farfalle. Le persone le odiavano così tanto!
Nel film c’è chi non vede la loro presenza come solo distruttiva, ma sembra accettarle come parte dell’atmosfera di un’estate significativa.
È quello che sto cercando di fare con il prossimo progetto, di trovare un modo che non approcci la questione del climate change in modo semplicistico, ma che mostri le sfumature e la complessità. È bello avere qualcosa di neutro come simbolo dello squilibrio che provoca il cambiamento in natura. Non è possibile accusare le farfalle per il fatto di essere lì, di certo.
Di cosa tratta il tuo prossimo film?
È un film sui fantasmi, che ha lo stesso approccio documentario. Siamo andati con il mio dop di recente a girare nella stessa zona di Pyrale, al confine tra Drôme-Ardèche, per raccogliere le testimonianze di storie di fantasmi. Volevo partire anche stavolta dalle persone che abiteranno il film. Sono legata a questi luoghi ed è anche un buon pretesto per visitare la mia famiglia, che non vedo spesso.
Come lavori sulla fotografia?
Ho lavorato con diversi direttori della fotografia. Con Raimon Gaffier avevamo già girato dei videoclip e volevamo aggiungere al film qualcosa dell’immaginario pop, ispirato alla nostra esperienza nei video musicali. Anche per questa ragione le luci hanno un ruolo così centrale nelle inquadrature. Lo stesso gesto di girare in questa zona è come un sogno adolescenziale per me, quando ero piccola mi faceva paura stare da sola in quei luoghi. È stato molto divertente girare in quel modo. Alcuni elementi visivi su cui abbiamo lavorato hanno assunto poi in un secondo momento un ruolo narrativo, che è il bello di scrivere quando c’è già un girato.
Cosa pensi del cinema contemporaneo, come immagini il tuo lavoro in questo contesto?
È una domanda difficile. Mi piacciono molte cose diverse, sono cresciuta in una famiglia in cui si vedevano Blockbuster e serie tv, e so apprezzare tanto questo tipo di film quanto un documentario sperimentale. Sento che ci sono tante cose belle che accadono oggi nel mondo del cinema, ma ho un po’ paura dei trend. Penso che sia interessante saperli leggere, ma penso che siano così veloci che se esce un’opera molto autentica, c’è sempre il rischio che venga copiata in un milione di modi. Una delle ragioni per cui ho iniziato con il documentario è stata perché volevo che i miei film esprimessero sensazioni che non erano solo mie. Volevo che i miei film fossero sorprendenti e che non si collocassero in una sola categoria, potendo essere visti tanto da persone che hanno una cultura cinematografica quanto da chi non ce l’ha. Mi piace quando vedo film che non vengono da un grande ego, sono attratta maggiormente da persone più fragili e oneste rispetto ai propri sentimenti. Il mondo è così complicato che non ci possiamo permette di produrre altre immagini random che si aggiungono a quelle già prodotte, la mia idea è quella di testimoniare le cose che vedo intorno senza essere eccessivamente cinica.