Il senso sta nella ricerca, come sempre. Ognuno cerca qualcosa di diverso e tutti, a un certo punto della propria vita, cercano quel qualcosa nel silenzio. Un silenzio che inquieta, che ingobbisce, che fa infuriare. È il silenzio di Dio, temuto da padre Lucas e interrogato da Ragnar (“come riesco a sentirlo?”), in una terra dichiaratamente ostile, l’Islanda, dal territorio fino ai suoi abitanti.
L’opera terza di Hlynur Pálmason (autore anche della sceneggiatura) presentato a Cannes75 e distribuito in Italia solo in cinema selezionati da Movies Inspired, è un potente viaggio nei territori inesplorati. Quelli calpestabili dell’Islanda, impervia e selvaggia, sapientemente catturata da una regia e una fotografia ispiratissima (Maria von Hausswolff); e quelli calpestati della psiche, un ring in cui l’esterno e l’interno combattono costantemente alla ricerca di un ordine forse solo apparente. Il viaggio di padre Lucas è una missione non possibile – anche quando sembra realizzarsi – verso il lato buio dell’animo, quello non rischiarabile dalla luce di una candela, quello non immortalabile dallo scatto di una fotografia. Il ponte che regge l’animo, anche qui, è quello del linguaggio: è l’interprete a rappresentare la possibilità, il dialogo. Senza, padre Lucas inizia la discesa verso una terra paludosa da cui tenersi alla larga, come il famoso vulcano di cui viene ammonito durante il primo colloquio. La costruzione di una chiesa da portare a termine prima dell’arrivo dell’inverno è la metafora della debolezza: “distruggerò il Tempio e lo ricostruirò in tre giorni”. La fuga è liberatoria.
Godland è un’ottima prova sulla ricerca, innanzitutto personale, di Dio. Il Dio personale, quello “che ci abita in petto”, reclamato a gran voce dal prete nel buio della propria tenda. Un Dio che è interno e, anche qui, esterno. Da riscontrare negli eventi, da riscontrare nelle carcasse che emergono dalla terra, in un Gòlgota (il monte del teschio) che Lucas percorre perdendo se stesso a ogni passo. Un percorso, il suo, forse inverso rispetto a quello di due personaggi che sono antenati stretti: l’Antonius Block impaziente di Bergman ne Il settimo sigillo e il padre Rodrigues tormentato di Scorsese in Silence. Alle sue spalle Pàlmason costruisce l’immagine pretendendo tempo e pazienza (così come fa il protagonista del suo film con la macchina fotografica) attraverso lente panoramiche di sublime bellezza, o campi lunghissimi a sottolineare l’effimera natura umana, argomento di chiusura tra lo stesso prete e Carl, perfetto rappresentante di quel Tempio che non può essere distrutto. Come i due capostipiti del genere già citati, Godland ci mette di fronte a un’immagine complessa, ricca di informazioni non sempre belle o sostenibili, le stesse che vanno a comporre la decomposizione del cavallo; le stesse che vengono risparmiate alla gallina pronta all’esecuzione attraverso un gesto di sensibile umanità di Ida, che le copre l’occhio.
Cosa ci può essere risparmiato in quanto spettatori? Cosa, invece, richiediamo con insistenza di vedere? Siamo anche noi un po’ le galline a cui la visione viene filtrata, sabotata, mentre la camera gira e ci mostra solo quel che vuole? E quanto siamo capaci di concentrarci su ciò che viene svelato, man mano che l’immagine, come una fotografia, si sviluppa di fronte ai nostri occhi? Pàlmason sembra sulla buona strada per continuare questo discorso – e rispondere a queste domande – con i suoi prossimi film, partendo da questa piccola, luminosa perla.