L’influenza di Strade perdute sul cinema del terzo millennio è immediata ed evidente fin dal suo pretesto narrativo. Il primo grande conflitto del film s’instaura nel momento in cui la coppia di protagonisti riceve videocassette anonime che minacciano il loro privato e la loro intimità, al punto da confermare i dubbi del marito sulla fedeltà della moglie. Oggi pensiamo alla videocassetta come a un oggetto appartenente a un’epoca passata, che dalla fine degli anni Novanta è stato velocemente archiviato e sostituito dal supporto digitale. Ma l’idea dell’intrusione di uno sguardo esterno che inquieta, turba e viola il codice della privacy in un ambiente borghese e famigliare ha anticipato molti spunti successivi, che hanno caratterizzato con costanza uno dei temi più ricorrenti del cinema degli anni Duemila: sembra inevitabile rivolgersi al Michael Haneke di Niente da nascondere, oppure al lungo e ridondante filone horror che parte dal giapponese Ringu (1998) di Hideo Nakata – all’epoca, davvero sorprendente – e arriva stancamente agli americani V/H/S e Sinister. Strade perdute però è un film di David Lynch. E le riflessioni che crediamo di sviluppare nella prima mezz’ora – dalla fragilità della vita domestica e sentimentale all’infiltrazione di un occhio altrui che frustra le nostre capacità di controllo – sono destinate gradualmente a sbriciolarsi e frantumarsi.
Lynch illude e inganna ogni genere di aspettativa nei confronti di uno sviluppo narrativo razionale. Si prende gioco dei meccanismi hitchcockiani della tensione che avrebbero potuto condurre a una rivisitazione di La donna che visse due volte. Stravolge letteralmente la sensibilità visiva del suo film, frullando immagini, codici e suggestioni che rimandano a Il mago di Oz e ad Alice nel Paese delle meraviglie. E soprattutto, dopo circa sessanta minuti di quello che potrebbe assomigliare tutto sommato a un melò-noir passionale, seppur lisergico e allucinato, lavora a qualcos’altro, apre un’altra storia, perdendo di vista quella precedente. Salvo, forse, recuperarla alla fine per illuderci nuovamente di aver riallacciato i fili. E così la coppia principale non è più composta dal musicista Fred Madison (Bill Pullman) e dalla splendida moglie Renee (Patricia Arquette, in versione dark), ma, di punto in bianco, dal giovane meccanico Pete (Balthazar Getty) e dall’incantevole Alice (sempre Patricia Arquette, in versione blonde), fidanzata di Mr. Eddy (Robert Loggia), uno spietato boss del porno e della malavita. Non c’è una spiegazione logica per cui Fred sia diventato Pete. Anche rivedendo Strade perdute oggi, a ventisei anni dalla sua realizzazione, appare fortissima la sensazione che lo stesso regista provochi nello spettatore l’interrogativo di non star capendo quello che accade sullo schermo, e allo stesso tempo lo inviti a non curarsene. L’obiettivo di Lynch è manifesto: stimolare il desiderio di chi sta guardando a seguire con fiducia il suo sguardo, perché a quel punto della storia la macchina da presa, semplicemente, possa innamorarsi di una nuova idea e seguirla.
Strade perdute è doppiamente sghembo e volontariamente incompiuto, e ragiona sul cinema come unico mezzo espressivo che possa tentare di oltrepassare i limiti del reale e l’immaterialità del sogno. Consapevole della sua fallibilità, Lynch esplora e sperimenta l’immagine come strumento ipnotico: un processo creativo che rappresenta il principale fil rouge della sua filmografia e che il cineasta – con l’eccezione spiazzante, struggente, di Una storia vera(1999) – ha approfondito sempre più di pellicola in pellicola, alzando ogni volta l’asticella dell’astrattismo, e raggiungendo probabilmente l’apice teorico ed espressivo con INLAND EMPIRE (2006), suo ultimo lungometraggio per il cinema. Molte volte come spettatori pretendiamo di decodificare la storia da un punto di vista logico: nel cinema di Lynch è un’operazione quasi sempre inutile, e spesso molto poco interessante. Pochi artisti come Lynch riflettono invece sulla possibilità di comprendere e decodificare l’immagine attraverso l’intuizione. Al di là dei più o meno evidenti riferimenti suggestivi di Strade perdute, a livello ideologico il suo principale nume tutelare è Jean-Luc Godard, quando affronta il visibile e l’invisibile: il cinema può rappresentare tutto quello che non vediamo, è una finestra che ci permette di entrare ogni volta in un luogo diverso, ed è ciò che si avvicina maggiormente alla riproduzione di un sogno quando non sogniamo. Mentre guardiamo Strade perdute, magari ci domandiamo se la vicenda di Pete esista soltanto nella testa di Fred, oppure se Fred soffra di schizofrenia, oppure se Renee e Alice siano sorelle. Ci dimentichiamo nel frattempo chi sia Dick Laurent, citato nella prima frase del film, se sia morto veramente, e a un certo punto smettiamo di domandarci chi abbia filmato le videocassette.
Quello che rimane scolpito nella nostra mente, anche a distanza di tempo, è invece l’inquietante aspetto fantasmatico di Mystery Man (Robert Blake), quanto di più vicino possa esserci alla rappresentazione del buco nero che abita dentro di noi. Un semplice volto in grado di accentrare l’idea della paura di morte e del senso di colpa che portiamo nel nostro inconscio. Continuiamo a pensare a This Magic Moment di Lou Reed ogni volta che rimaniamo folgorati dall’aspetto e dal portamento magnifico di una figura che attrae il nostro sguardo, proprio come accade a Pete quando Alice arriva all’officina. E ci immergiamo nel buio della notte mentre viaggiamo su un’automobile in una strada senza meta, ogni volta che pensiamo che davanti a noi ci sia soltanto il nulla dell’oblio. Sin dal suo titolo, Strade perdute riflette sul fallimento della narrazione razionale, sull’impossibilità del nostro percorso di raggiungere un compimento, e sfida le immagini nell’unico campo di ricerca in cui possono davvero superare la realtà: l’esplorazione del mistero.