In girum imus nocte et consumimur igni
Ogni tanto compaiono. Quei film che allargano le possibilità espressive del cinema. Quei film che, squarciando le posture della cinefilia e le abitudini percettive spettatoriali, investendo sulla ristrutturazione sensoriale e sull’invenzione di uno sguardo etico, costringono a riorientare le definizioni e le categorie con cui si guarda il mondo e lo si interpreta. Nuit Obscure – Feuillets sauvages, documentario d’osservazione diretto da Sylvain George e vincitore del Filmmaker Festival 2022 (dopo essere stato presentato Fuori Concorso al 75esimo Festival di Locarno), è questo, un’opera-mondo in grado di dislocare le dinamiche conoscitive dell’occidente contemporaneo in un altrove di tempo e di luogo. Nello specifico a Melilla, città spagnola del Marocco, spazio di confine tra Africa e Europa, non luogo fatto di virtualità espanse dove l’esistenza fisica quasi sbiadisce e si assopisce, limbo purgatoriale adibito alla sosta delle anime che migrano. È lì, dove si è in attesa di qualcosa che non succede, dove il tempo è durata senza sfogo nello scopo, dove i corpi di giovani ragazzi e uomini e donne faticano a possedere anche la propria esistenza e lottano tra le barriere di un ordine silenzioso e imperscrutabile, che George trascina lo sguardo. Senza nessuna messa in forma illustrativa, nessuna impostazione prospettica, nessuna manovra cartesiana di distacco razionale, nessuna storia: assente, anzi, rimossa la distanza dagli eventi, totale la continuità sensoriale.
Questa è la mossa di scarto che il regista compie rispetto alle categorie rappresentative occidentali: estendere attraverso le immagini lo shock subito dai corpi in migrazione, diminuendo e diminuendo la distanza rappresentativa, fino a ridurre a un’apparente convergenza lo scarto, comunque sempre asintotico, tra riproduzione e realtà. Per raggiungere questa congiunzione ideale il documentarista francese (che ha curato quasi tutti gli aspetti tecnici) opera attraverso una dissoluzione della riconoscibilità della propria grafia, secondo la logica di indebolimento della postura autoriale e proporzionale aumento dell’autonomia espressiva del reale. Non è però guidato da una fantasia ontologica di trasparenza, o dalla presunzione di cogliere un ipotetico punto di autogestione della realtà di fronte al quale posizionarsi in attesa per registrarlo; piuttosto si affida alla capacità di esprimere il proprio punto di vista (umano prima che documentaristico, se le due cose si possono scindere) non con un’esplicita enunciazione, ma con un annullamento che si istanzia come compartecipazione responsabile e testimoniale rispetto a ciò che si guarda. Questo annullamento porta George a compiere la radicale scelta di non organizzare in forma narrativa la grandissima quantità di materiale video generata dall’avvicinamento alla quotidianità dei migranti e di lasciarsi investire dalla frammentarietà esistenziale della vita di Melilla – anche se la fluvialità della notte oscura in cui si immerge richiama a sé geometrie precise (certe triangolazioni tematiche, come nelle sequenze dove i corpi diventano corpi merce destinati alla rete del capitalismo sommerso, sono segno di grande lucidità).
L’adattamento alla pressione incontrollata della realtà invece di essere segno di una timorosa ritrosia per la scelta di un punto di vista è prova di una presa di posizione radicale (ogni cosa possiede dignità d’esistenza, non c’è gerarchia organizzatrice e quindi non c’è punto di vista definitivo), che permette a George non solo di ribaltare in occasione di testimonianza etica la tensione di controllo sottesa a certe forme audiovisive contemporanee (le immagini di George a volte non sembrano diverse da quelle delle telecamere di sorveglianze che costellano l’enclave di Melilla, ma si diversificano da esse perché riarticolano la quantità di dati proprio in senso testimoniale) ma anche di restituire al reale l’intensità di senso che il reale stesso non sempre riesce a esprimere. Così, dal flusso informe delle immagini sorge una forma intellegibile, e così, scontornato dalla storia e dotato di diritto d’immagine, l’evento esistenziale (subito politico, sociale) risplende dell’intensità dolorosa che gli è propria, con tutta la forza di un fuoco che strappa la continuità anestetica prodotta dalla corrente mediale che domina l’orizzonte presente. Sbirciando in questo strappo abissale, in fondo a cui si muovono le immagini dimenticate, scartate, rimosse, lo sguardo spettatoriale che di solito si tiene a buona distanza scivola su un punto di curvatura inatteso: da lì non torna indietro senza essere diventato sentimento.