Sono passati poco più di 200 anni da quando Wilhelm von Humboldt, fratello maggiore del più famoso Alexander, esponeva con i suoi saggi di filosofia del linguaggio la capacità di una lingua. In particolare, l’innato meccanismo che permette alla parola di creare e modificare il contesto, e non viceversa.
Nell’ultimo film di Salvatore Mereu, presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia e realizzato con gli studenti del corso di Laurea Magistrale in Produzione Multimediale di UniCa, questo meccanismo diventa esplicito e tematico. Esplicito perché l’immagine è sconfinata, così nelle infinite distese di giallo e blu della Trexenta, così come nel rigoroso dettaglio notturno che racconta la ruralità di un mondo lontano nel tempo ma non ancora completamente abbandonato, anzi orgogliosamente difeso. Com’è giusto che sia.
Tematico perché la mancanza di confini è diretta conseguenza di una lingua dalle radici profonde e senza vicini, tutti tenuti al di là del mare, guardiano di difesa quasi insuperabile. Quasi, certo, perché la breccia si instaura attraverso gli avvenimenti più subdoli: la malizia della modernità, che prende gli aspetti di una mietitrebbia, o l’indeclinabilità della lettera di un figlio, scritta in italiano perché così è necessario fare, se si sta dall’altra parte. Il compromesso tra il futuro e chi lo subisce, sperando che nulla si trasformi, mentre in realtà tutto si distrugge.
Nella parola sta, quindi, il mondo. Ed è difficile spiegare meglio Bentu, che dei dialoghi (e della loro assenza) vive, emoziona, racconta. Difficile spiegare meglio il rapporto tra una figura paterna e quella di un bambino giocoforza nato grande; difficile spiegare meglio la necessità di non sentirsi soli in un mondo in cui si è sconfitti in partenza, nonostante il grido d’aiuto rimanga strozzato in gola. È l’assenza, quindi, a dare il senso di tutto, sia essa manifestata in un’attesa lavorativa o in un rapporto umano messo in stand-by, se così si può definire l’eterno rimandare che caratterizza il ritorno a casa e, di conseguenza, tutto il film.
Cosa resta, dunque, quando anche il vento si esaurisce? Resta la consapevolezza di entrare in contatto con un film che non ha bisogno di dire più di quello che serve per dire tutto, e che proprio per questo si fa apprezzare. Resta la nostra consapevolezza di aver visto, per 70 minuti, una vita. E, attraverso di essa, tutte le vite del mondo.