Dopo alcuni titoli in cui la metafora politica era più velata, Lav Diaz stavolta prende la questione di petto. Il suo Hermes è un tenente della polizia direttamente implicato nello sterminio, fortemente voluto da Duterte, dei “tossicodipendenti” (qualifica questa dalle maglie piuttosto larghe, e che nell’uso dell’ormai ex presidente delle Filippine poteva benissimo includere semplici oppositori come pure altri variamente scomodi). Fortunatamente, però, il valore politico di When the Waves are Gone non è nei pistolotti politici (che pure ci sono, e non sono tra gli elementi più inoppugnabili del film), ma nello schema drammaturgico che lo innerva – e soprattutto, nel modo in cui, da questo schema, il film riesce a liberarsi.
È uno schema mutuato da Norte (2013), film che tentava una teo-fenomenologia dostojevskiana dell’ex dittatore Marcos, riflettendola in due personaggi paralleli: un giovane nichilista che incontrava la dannazione tanto più cercava di portare la salvezza in terra, e un santo laico rassegnato all’inferno sulla terra, conscio che l’unica salvezza è nei cieli. La teo-fenomenologia del potere dutertiano tentato qui si riassume nel percorso parallelo di altri due uomini, ricavati da un re-impasto e re-divisione di quelli di Norte. Hermes, poliziotto sostanzialmente saggio e tutt’altro che privo di coscienza critica, ma incapace di resistere alla tentazione di imporre violentemente un’idea di giustizia totalmente autoriferita; e Primo Macabantay, un tempo istruttore di Hermes, e che dopo dieci anni di galera si sente rinato, benintenzionato e deciso a propagare la parola del Signore battezzando gente a destra e a manca, ma anche a vendicarsi con brutalità di Hermes, che lo mise in galera.
In una cornice che colloca all’inizio e alla fine il grosso dell’azione, per dedicare invece le più di due ore e mezza rimanenti al minuzioso ritratto dei due personaggi, When the Waves are Gone mostra, variando lo schema di Norte, l’inseparabilità di dannazione e redenzione – e dunque l’impasse intrinseca della gestione dutertiana del potere, che usa la violenza per imporre un ordine del tutto arbitrario. Uno dei due va più verso la dannazione partendo dalla redenzione, l’altro il contrario, ma il risultato è sempre il reciproco annullamento.
Ma se l’esito è a somma zero, tutto è nel percorso per arrivarci. Durante l’autocancellazione del dramma, e per così dire a lato della reciproca autodistruzione dei due personaggi, le immagini lasciano intravvedere una dicotomia più importante della falsa alternativa tra dannazione e redenzione: danza (Primo) e malattia (la psoriasi di Hermes, e le conseguenti convulsioni). La disarticolazione del corpo (e quindi, per estensione, del corpo politico) deve trovare una terza via tra ordine e disordine. Non è un caso se la lezione di Hermes ai suoi studenti dell’accademia di polizia, con cui comincia il film, verte prima su un caso irrisolto, irriducibile ad alcuna spiegazione, e poi su un caso risolto per pura coincidenza: bisogna scordarsi, insomma, che cause ed effetti si leghino meccanicamente, anche là dove ci aspetteremmo la massima meccanicità (le investigazioni poliziesche). L’organico, termine che Diaz cita molto frequentemente nelle interviste, deve separarsi dal meccanico. Il movimento (dei corpi, dell’azione, degli elementi naturali come fronde e onde che qui hanno una valenza espressiva maggiore del solito) deve rivelare l’irregolarità, la non-linearità, la labirintica frammentazione del suo tracciato. Lasciare che dai corpi, dall’azione, dagli elementi naturali emerga il ritmo loro proprio (“La verità va cercata dall’interno, non dall’esterno”, frase di Hercule Poirot che campeggia in un’aula dell’accademia di polizia), non quello imposto dalla drammaturgia.
La continuità dei long take diaziani, pur qui perturbati da diversi tagli interni alla scena (un primo piano di spalle, un dettaglio di un coltello che si alza al cielo…) è funzionale alla sensibilizzazione del discontinuo al loro interno: raramente come in questo caso, nella filmografia del filippino, la fotografia in bianco e nero ha distribuito la luce per chiazze geometriche, che frammentano l’insieme dell’inquadratura grazie a un’illuminazione studiatamente trasversale e selettiva.
Farci percepire il visibile come frammentato attraverso la continuità; farci percepire la complessità di un personaggio dandogli tutto il tempo di dispiegarsi pienamente, zone d’ombra morali comprese. Fare un film politico, per Diaz, non significa predicare verità ovvie: significa ricordarci che guardare significa essere ricettivi a come ciò che guardiamo esce dagli schemi con cui crediamo di dominare quella materia – schemi drammaturgici in primis. Solo attraverso quella chiave, puramente ottica, possono dischiudersi la stratificata ambiguità della morale e della politica.