Ne Gli ultimi giorni dell’umanità, a un certo punto, dentro qualche navicella spaziale una qualche sostanza sferica, grossa più o meno come una pallina da tennis, dalla superficie riflettente a mo’ di specchio viene vista fluttuare, circondata dagli astronauti, per minuti e minuti, mentre la voce over ci introduce a una definizione vagamente lacaniana di desiderio. Marylin, secondo Blonde, è questo: un punto dello spazio che intercetta ogni proiezione, ogni desiderio, perché è fatta di nulla tranne che della sostanza di cui sono fatti gli specchi. Marylin è qualcuno a cui un trauma infantile sottrae l’identità, e a cui dunque davanti a uno specchio non viene riflessa alcuna immagine, ma soltanto lo specchio stesso. Lo specchio rifletterebbe Marylin nella misura in cui non le restituisce la sua immagine, ma il suo essere lei stessa nulla più di uno specchio. Del resto, l’unica relazione sessuale appagante che vediamo nel film è quella con i due figli di papà praticamente identici: lei non è che la lastra riflettente tra le loro due immagini speculari, ed è precisamente questo che gli effetti visivi scelti da Dominik enfatizzano in quella scena.
L’assenza del padre sostituisce l’identità con un punto interrogativo: può legittimamente tornare in mente La strategia del ragno, le cui immagini costituiscono uno dei principali assi strutturali del film di ghezzi-Gagliardo. Anche in quest’ultimo (imperniato sul rapporto padre-figlia come Blonde lo è su quello figlia-padre) è centrale la questione dell’identità, che però in questo caso viene destabilizzata da come il cinema prima, e poi quel suo supplemento tascabile che è la telecamera ad uso famigliare (il film mostra un gran numero di filmini domestici girati dallo stesso ghezzi) estrinsechino, e quindi rendano ineludibile, la coincidenza tra vita e memoria sulla cui base il presente risulta irreperibile – e quindi, a rigore, la vita invivibile. Nella prima parte, che incornicia una parte centrale più propriamente incentrata sulle immagini “biografiche” di ghezzi insieme a una finale di carattere più esplicitamente socio-politico, un montaggio biologico “malickiano” di vulcani eruttanti e altri elementi naturali suggerisce un qualche maelstrom pre-soggettivo da cui uscirebbe il soggetto, e viene alternato con numerose immagini, assemblate con spiccato dinamismo, di gente che spara fuoricampo, corre verso di esso e quant’altro (viene in mente Artavazd Pelesjan, e infatti nel montaggio ci sono anche i suoi corti). La memoria, e quindi la vita stessa, registra l’assenza di un presente che non si può mai abitare ma da cui si può solo fuggire; lo sapeva bene Kafka, che infatti (con “Il paese più vicino” e “Il desiderio di diventare pellerossa”) è un altro degli assi portanti del film. Se il presente non c’è, cade la distinzione tra documentari, immagini di repertorio, film di finzione, filmini di famiglia, tutti infatti mescolati in un montaggio di densa stratificazione concettuale ma “aerato” ritmicamente da alcune macrosequenze di durata particolarmente estesa. Per quanto riconoscibile sia la struttura data al montaggio, la vocazione intima rimane quella di Blob, ovvero quella di flirtare con lo stato di indistinguibilità che le immagini tendono ad assumere una volta accatastate in quantità ingestibili, come la televisione fa ogni giorno: così, le immagini arrivano al proprio centro vuoto, che è il nulla che le anima ma che per definizione non possono raffigurare. “On ne saurait penser à rien”, come si sente nei primi minuti di proiezione.
Frase che assomiglia molto a una delle prime battute di Blonde – e non è nemmeno l’unico dei rimandi di superficie tra i due film, a cominciare dall’episodio (mostrato in Gli ultimi giorni, solo raccontato in Blonde) in cui il/la rispettivo/a protagonista sembra morto/a ma è solo addormentato/a. Blonde è un film che dalla primissima immagine (riflettori giganteschi in uno studio della Hollywood classica) denuncia la centralità non tanto dei cascami psicanalitici che sembrerebbero informare gran parte del plot, ma della luce, la quale però cambia ogni due minuti come cambiano stile, pattern cromatici, formato dello schermo e quant’altro. Perché Marylin è uno specchio: qualunque luce può essere provata, cambiata, cristallizzata in scrittura o stile, ma tutte hanno rigorosamente lo stesso effetto sulla lastra-Marylin, che è quello di rimbalzare e basta. E dunque tutte le luci, tutti i colori, tutti gli stili diventano indifferenti. Solo con la morte, Marylin si ricongiunge per la prima volta alla luce naturale che penetra nella sua stanza; prima di allora, il nulla della luce è solo rincorso e mai afferrato da mille stili diversi e a posteriori tutti ugualmente mancati.
Con Blonde, Netflix trova ciò che (come dimostrano i Bardo e i White Noise visti contestualmente a Venezia) sta attualmente cercando: una forma cinematografica volutamente modulare e frammentaria (nonostante la linearità dell’arco, nel film di Dominik ogni scena è un film a sé) presa a prestito abbastanza di peso dagli esperimenti “highbrow” della letteratura postmoderna dell’altro ieri, nel frattempo diventata verosimilmente mainstream. Gli ultimi giorni dell’umanità è, fra le altre cose, e come l’ultima raccolta di scritti ghezziani L’acquario di ciò che manca, un monumento a un’irripetibile età della televisione italiana (è infatti tra tardi anni ottanta e primi anni novanta che risale la maggior parte del girato), in cui un protagonista del tardo modernismo postbellico come Angelo Guglielmi del Gruppo 63 ha lasciato carta bianca a, fra gli altri, enricoghezzi per mettere in tensione flusso televisivo e frammentazione della programmazione in vista di uno straordinario esperimento socio-mediatico.
Lo si dice spesso: l’Italia è in molti casi il laboratorio di ciò che solo in seguito si imporrà nel resto del mondo. Non di rado ad essere sperimentate sono cose tremende (tipo il terrorismo di stato), ma non sempre. Vedere, per via della cornice festivaliera, a distanza di poche ore Blonde e Gli ultimi giorni dell’umanità può legittimamente suggerire un non banale cambio di prospettiva, forse persino un antidoto contro sudditanze, pregiudizi deterministi e fallaci articolazioni tra centro e margini. Può suggerire, cioè, che gli odierni tentativi di Netflix di allentare le maglie dei propri prodotti cinetelevisivi fino a disfarne i contorni, derogando dall’ossessiva mappatura algoritmica dei segmenti di pubblico praticata nel proprio comparto seriale e spingendosi dunque almeno in parte in territori non del tutto conosciuti per mera virtù di apertura e frammentazione testuale, potrebbe essere l’istituzionalizzazione terminale di esperimenti di offerta cinetelevisiva che, in maniera più sanamente informale, da noi sono stati condotti già decenni fa.