Go on now, go, walk out the door
Just turn around now ‘cause you’re not welcome anymore
Weren’t you the one who tried to hurt me with goodbye?
You think I’d crumble?
You think I’d lay down and die?
Oh no, not I, I will survive!
Gloria Gaynor e la sua (mai ben approfondita) I Will Survive possono fornire probabilmente la miglior esegesi per l’ultima fatica di Alex Garland: Men, che dalle foreste britanniche lancia l’urlo di Harper, donna rimasta vedova di un marito – forse – morto suicida. Il forse è il motore del maligno, perché ci obbliga a staccare i piedi dalla realtà, ed è il motore anche dell’uomo, che sulla ricerca delle colpe femminili indaga, costruisce, specula. All’immagine invece il compito opposto: quello di affermare, di chiarire, di risolvere. All’immagine il compito di sviluppare la realtà, di leggerla, ben oltre il confine della sala. L’immagine si spoglia del dubbio, della prospettiva, e si fa calce: incontrovertibile, ripugnante. Didascalica forse, e sia, la presa di posizione è tale perché parte da un’azione terminata e quindi non più malleabile. Al contrario del what if che tormenta Harper, diventato prima carne e poi verbo, al fianco del pastore e di tutti gli altri Rory Kinnear.
La donna, in fuga da un disagio interiore rinvigorito dal perenne senso di minaccia, si rifugia in una villa nel mezzo di uno spazio semivuoto, nella campagna inglese. La pace ricercata, il tormento da calmare, il coraggio da ritrovare: la natura, meravigliosa, non basta. Il male sbircia e attende, appena fuori dalle finestre o appena dentro, questo è il problema. L’esterno e l’interno delle mura domestiche si scambiano, infatti, il ruolo di chiaro e di scuro della questione, caratterizzata dal rosso suspiriano delle pareti e dal verde delle sequenze all’aria aperta. Ma se “il terrore è figlio del buio” come diceva la morte di Bergman ad Antonius Block, non basta la luce a rasserenare l’animo, anzi, anche gli ambienti antropologicamente più sicuri possono nascondere le insidie peggiori. Garland parte da un concetto molto semplice: l’innata natura intimidatoria e tossica dell’uomo, vecchia più di 500 anni (come la casa), vecchia più dell’uomo stesso, a partire dall’albero di mele edenico nel giardino della villa.
È proprio dal villaggio vicino che iniziano a comparire uomini che condividono lineamenti e colpe, condividono lo stesso male dentro. Tutti uguali eppure tutti diversi, paradossalmente, perché lo siamo. Un j’accuse che mostra il fianco alla retorica, perché della stessa materia è composto il film, ma che dice quello che molti e molte pensano, vivono, soffrono, al netto dello spettacolare registro sovrannaturale che scorre in Men. Il film indaga sul nostro rapporto con l’altro, sulla nostra ossessione di stare (o di mostrarci) dalla parte del sopraffatto. Ed è qui che la rivendicazione si fa corpo a corpo: non può essere altrimenti, chi fa del male a chi? Chi spaventa chi?
“Non siamo cattivi, è che ci disegnano così” si potrebbe controbattere usando una citazione fortunata, ma nel rapporto di forza che si sviluppa tra la donna e gli uomini, la gara a chi porta il fardello più pesante (come capita a tutti quotidianamente, a prescindere dal sesso dell’interlocutore), può risolversi senza vincitori. Su un divano, esausti, l’uno dell’altro. Ecco perché l’angoscia si sveste del mezzo (filmico) e svela le proprie nudità di messaggio, ribaltando lo spettatore – e la sua colpa – da aggressore ad aggredito. La mostra delle nostre (terribili) potenzialità è la mostra dell’idea cinematografica di Garland, mai così diretta, che ci piaccia oppure no. Questo vuol dire affermare, per chi ha il coraggio di farlo. Un cinema che afferma non solo è possibile, ma diventa doveroso. Perché ci disarma dell’ipotesi, il nostro mezzo preferito per condurre il ragionamento e la conversazione, e ci obbliga ad affermare a nostra volta. Spesso, nostro malgrado. E dall’affermazione non si torna indietro.